ORSI ITALIANI MAGAZINE




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Un bicchiere di cognac

Un racconto di Jan Vander Laenen


I racconti pubblicati possono contenere descrizioni di sesso non sicuro: ricordate, sono opera di fantasia! Nella vita reale praticate sempre il Sesso Sicuro usando il preservativo.

The stories published in this section may contain descriptions of unsafe sex: remember, it's fiction! In real life always practice Safe Sex by using condoms.



"Les natures au coeur sur la main ne se font pas l’idée des jouissance solitaires de l’hypocrisie, de ceux qui vivent et peuvent respirer, la tête lacé dans un masque."

[Quelli col cuore in mano non hanno idea delle gioie solitarie dell’ipocrisia, di quelli che vivono e possono respirare con la testa avvolta in una maschera]

(BARBEY D’AUREVILLY, Les diaboliques)


Permettetemi di iniziare questo racconto – che mi auguro non sarà totalmente privo di una sua frivolezza o diciamo pure di ipocrisia – con una nota un po’ seria, noiosa se volete: fra un paio d’anni, se Dio vuole, compirò cinquant’anni; da tre anni ho una relazione soddisfacente con un altro uomo della mia età, un vero coccolone con la sua pelata, occhi scuri, baffo folto e natiche sode, e in questi tre anni sono stato virtualmente fedele a questo uomo.

Come mai questa improvvisa fedeltà coniugale da parte mia?

Visto che, con una testa ancora piacevole e incoronata dalla barba, e un membro che non ha ancora dato segni di malfunzionamento, ritengo senza falsa modestia di essere ancora in grado, con un po’ di fortuna e un po’ di sforzo, di procurarmi qualche avventura occasionale in un paio dei più flirtosi locali di Bruxelles?

E non mi sono certo stancato della bellezza del sesso maschile; anzi, ogni volta che incontro per strada un bell’orso, i miei occhi scuri lanciano scintille.

Per cui diamo la colpa della mia virtù a quel diavoletto di Cupido che, probabilmente per la prima volta in vita mia, è riuscito a centrarmi in pieno con una delle sue frecce.

Da un punto di vista meno noioso e un po’ più piccante, resta il fatto che fino a due o tre anni fa ero un libertino impenitente che, pur non andando troppo per il sottile con i suoi partner, aveva comunque una spiccata preferenza per gli esemplari più pelosi, barbuti e robusti e che, durante la sua libertina carriera, deve aver scambiato momenti intimi con un paio di migliaia di uomini di una quarantina di nazionalità – intimità di cui sono stati testimoni boschi, parchi, automobili, treni, hotel, cinema porno, saune, sex clubs e – ovvìa – anche dei normalissimi letti e che, a parte le pratiche S&M più spinte, ha spolverato praticamente tutti il repertorio fra il soft e lo hard.

E aggiungiamo che in tutti questi anni detto libertino aveva un partner di nome Giulio, ed era ingenuamente creduto fedele...

Oh Giulio! Giulio di Viareggio!

Per ventun anni, dal 1983 al 2004 per la precisione, potevamo dirci un tutt’uno e, salvo l’occasionale screzio, ci vedevamo con gioia e possiamo dire senza ombra di dubbio che ci eccitavamo a vicenda.

Tu avevi sempre avuto una passione per i ragazzi alti, scuri, con la barba, com’ero io quando ci incontrammo.

E in tutti questi anni io non ne avevo mai abbastanza del tuo ampio torso villoso, dei tuoi occhi di perla nera, di quel buchetto del culo dall’aspetto innocente al centro delle tue natiche villose e ben modellate.

Eppure le nostre capriole amorose rimasero tutto sommato piuttosto alla vaniglia, un po’ di rimming da parte mia e un sano 69 con orgasmo simultaneo per concludere la seduta, perché nel momento in cui mi proponevo di essere un po’ più avventuroso, anche una semplice penetrazione anale, avevi pronta la scusa che tu “non eri stato cresciuto così” e che “queste sono pratiche da prostituta.”

Il fatto che sia tu che io tendessimo spesso a procurarci una qualche avventura e un po’ più di circostanze pericolose era probabilmente il motivo della relativa infedeltà reciproca, un’infedeltà che non abbiamo mai osato affrontare apertamente, e che abbiamo sempre in qualche modo coperto di un velo d’ipocrisia.

Ipocrisia! Oh, mi era riuscito di elevare l’arte dell’ipocrisia quasi alla perfezione in quegli anni.

Alle spalle di Giulio, aggiungevo una conquista dietro l’altra al mio catalogo, a Parigi, a Bruxelles, e naturalmente nella celeberrima pineta di Viareggio, situata a pochi passi dal nostro alloggio.

La famosa pineta!

O voluttuose memorie di imprese fra quei cespugli, con Fausto per esempio, un lupo solitario da Livorno, o Emilio, quel superdotato sedicente nipote bastardo nientemeno che di Giacomo Puccini, o con tutti quegli altri uomini che non avevano bisogno di dirmi come si chiamavano per calare le brache.

Come... e scrivendo questo passaggio mi arrivano ondate di voluttà, quel fusto che abitava non lontano da noi, all’ex campo d’aviazione, e che vedevo passare occasionalmente con quelle che dovevano essere la moglie e la figlia più o meno dodicenne.

Salvo che in quell’assolato pomeriggio di maggio aveva evidentemente lasciato a casa la famigliola, per farsi una bella e sana passeggiata fra i sentieri del bosco nei pressi della Lecciona...

Embé, che cosa volete da me?

Che vi faccia il panegirico dell’esercito di uomini sposati padri di famiglia che non resistono all’idea di cogliere di tanto in tanto il frutto di un altro membro del proprio sesso, come quel fusto da un metro e novanta che passava appena da una porta normale, e con una testa ricciuta da busto antico?

Con quello lì... ci siamo ritirati fra i cespugli per un quarto d’ora, baciandoci sulla bocca intensamente, dopo di che la mia bocca esperta – più esperta di quella della di lui signora, I presume – non ha lasciato nulla di inesplorato, i suoi capezzoli scuri e carnosi, il suo membro che descriverei come “tozzo,” ossia troppo grosso rispetto alla lunghezza, e naturalmente gli ho chiesto di girarsi e offrimi le sue massicce natiche aperte e di farsi dare una seria leccata di chiappe – trattamento al quale la sua legittima signora non l’aveva mai sottoposto a giudicare dal fatto che il mio fusto, in sintonia con me, a quel punto emise un grugnito basso e prolungato, e seminò il suo abbondante sperma sulle foglie secche e gli aghi di pino davanti a lui.

Aprendo la porta dell’appartamento quindici minuti dopo, dovetti fare uno sforzo per non sembrare sceso dal paradiso – ancora oggi, considero il “fusto” uno degli esemplari più libidinosi che mi sia mai capitato davanti – ma quando mi avvicinai a Giulio per dargli in bacio affettuoso mentre stava facendo le lasagne in cucina, lui mi guardò perplesso e sbottò:

“Sai di cazzo!”

“Ma che dici?”

“Sai di cazzo, che cosa stavi combinando?

“Un’allucinazione olfattiva?” risposi con la massima calma che mi era possibile.

Una che?”

Un’allucinazione olfattiva, amore mio. Hai la testa talmente piena di cazzi che ti sembra perfino di sentirne l’odore.”

“Sto cazzo!”

“Appunto, appunto,” risposi ridendo, “sei di nuovo di malumore, ammettilo,” incominciai a palparlo dappertutto e finimmo a letto dove, eccitato com’ero in quel momento, non ebbi nessun problema a raggiungere un altro orgasmo.

È chiaro che dopo quell’incidente, per evitare inutili scaramucce, mi feci assai più cauto nei miei sollazzi e presi una particolare abitudine: ogni volta che mettevo le corna a Giulio, nella pineta di Viareggio, o nei cinema porno e nei gabinetti pubblici quando eravamo a Bruxelles, subito dopo andavo in qualche bar a farmi un cognac che buttavo giù di un colpo, per sciacquarmi la bocca con l’alcol ed eliminare eventuali virus, nonché per coprire l’odore di un altro uomo. Hmm..

No, non sono mai stato fedele a Giulio nel senso letterale del termine, anche se il mio cuore gli è sempre appartenuto – a parte quella notte dal 31 ottobre al 1° novembre 1996.

Mi spiego.

Il 31 ottobre 1996 – all’età di trentasei anni, arrivai a Parigi con l’espresso da Bruxelles verso le sette di sera, per alloggiare all’Hotel Chopin presso la Place de la République. Giulio sarebbe arrivato la mattina dopo verso le undici all’aeroprto Charles de Gaulle con un volo da Pisa.

L’idea era di passare un romantico ponte di Ognissanti nella ville lumière.

Ma per quella sera ero teoricamente scapolo, e dopo aver cenato in un ristorantino della suddetta Place de la République, verso le 22.30 mi diressi verso lo One Way, sulla Rue Charlot, che allora era un nuovo bar della scena bear con varie dark room e via discorrendo.

E dopo aver debitamente percorso dette dark room senza trovarvi particolare interesse, risalii al bar, sedetti su uno sgabello e mi accinsi a godermi una birra nel mio angolino.

Quasi subito mi attrasse lo sguardo di un uomo seduto al bar, barbuto e di bell’aspetto, carnagione scura, un po’ grosso di corporatura, con occhi umidi e labbra carnose, che non oso descrivere se non come “weak” – weak (deboli) come nella canzone My funny Valentine: “Is your mouth a little weak”, debole nel senso che, come dicono i francesi, appariva “très porté sur la chose” (ossia avere il chiodo fisso).

L’uomo si diresse verso di me, mi strinse la mano e si presentò come Edward da New Orleans, che viveva a Parigi dove insegnava inglese.

“Ah, Louisiana!” risposi, “una combinazione ben riuscita di sangue francese, Cajun e americano.”

“E tu che fai a Parigi?” chiese lui.

Oh, sono di Bruxelles. Ma il mio amico fisso arriva domani dall’Italia per il ponte di Ognissanti. ” “Solo domani...”

Edward mi fece l’occhiolino maliziosamente.

“Che strano. Anche il mio amico arriva domani dal Canada.”

Mi accarezzò la guancia e mi chiese, con il buffo accento tipico degli americani che parlano francese, che cosa facessi nella vita.”

“Oh,” risposi, “traduco dal neerlandese, francese e italiano, ma scrivo anche molte cose mie, libri, teatro, sceneggiature per film, e così via.”

“Sceneggiature? Il mio amico lavora per una grossa società di produzione. Che tipo di sceneggiature?

Partii a raffica con le mie attività letterarie, avevo appena finito un giallo che si svolgeva nell’ambiente dei cartomanti, e poi la mia commedia romantica, e che forse non sarebbe stata una cattiva idea se il giorno dopo mi avesse presentato al suo amico, per parlare del mondo del cinema... ma a un certo punto notai un velo di tristezza negli occhi di Edward.

“Deduco dal tuo entusiasmo che tu sia ancora in ottima salute,” disse.

Gli diedi un’occhiata interrogativa.

“Che non sei... sieropositivo. Come me.”

Non so che cosa mi prese ma iniziai ad accarezzare i suoi capelli corti, e ben presto le nostre labbra si incontrarono, dapprima timidamente, ma poi con sempre maggiore passione in quell’angolo dello One Way, cercando a tasto i nostri capezzoli sotto le camicie, mentre Edward premeva delicatamente un ginocchio contro il mio membro in erezione.

“Non hai paura?” mi sussurrò.

“Non è che il virus possa saltarmi addosso, e poi con la tua onestà mi hai lanciato un incantesimo fatale.”

Fatale!

Ecco come squillò il segnale d’avvio di una delle più appassionate notti d’amore dei miei trentasei anni di vita, una notte breve e furiosa come un fulmine – non per niente si dice colpo di fulmine.

Uscimmo dallo One Way e, incamminandoci dalla Rue Charlot palpandoci e baciandoci sotto il cielo di Parigi, ci dirigemmo verso la Rue Saint-Antoine, dove viveva Edward, ma dobbiamo essere stati così impazienti di toccarci che scendendo alla stazione “Filles du calvaires”ci ritrovammo in una cabina per le foto tessera, dentro la quale ci calammo i pantaloni e procedemmo a stimolare i rispettivi membri, manualmente e oralmente.

E poi la notte d’amore nel suo appartamento, all’ultimo piano di un edificio della rue Saint-Antoine, con una romantica vista sui proverbiali tetti di Parigi.

Se dovessi descrivere quella notte mettendo l’accento su “amore” farei solo una povera imitazione di un film di Hollywood, tipo: ragazza la notte prima del matrimonio incontra quello che capisce essere il vero uomo della sua vita, perché dopo esserci raccontati in un lampo le nostre storie c’erano così tanti interessi in comune, c’era una perfetta compatibilità astrologica, e c’era e c’era...

Sessualmente, infrangerei l’illusione di quella notte se dessi una descrizione di un rapporto orale, come una versione idraulica dei nostri organi sessuali e delle nostre viscere, e di quello che abbiamo fatto con questi.

Comunque, Edward era piuttosto passivo. E io ho una ben nota propensione per la parte posteriore dell’uomo. Cosa più importante, usai il preservativo, e ci offrimmo reciprocamente una fellatio, e ci accarezzammo e baciammo a lungo, e... e... e...

...il mattino, risvegliatici l’uno fra le braccia dell’altro, aggiungemmo un altro capitolo alla nostra giovane storia d’amore. Seguito da una prima colazione a base di caffé, succo d’arancia e croissant Danone riscaldato nel forno.

“Credo di essere innamorato,” disse Edward mescolando il suo caffé.
“Credo di essere innamorato anch’io,” risposi.

Ci guardammo a lungo nelle profondità degli occhi.

“E se dessimo il benservito ai nostri amanti? Potremmo prendere un treno per Fontainebleau, per dire. Passare un paio di notti in un relais de charme. Passeggiare per la foresta,” disse.

“A che ora arriva il tuo amico?” chiesi.

“Alle quattro del pomeriggio. E il tuo?”

“Giulio? Stamattina alle undici, adesso che ora è?”

“Le nove e venti.”

Mi alzai.

“Ci rivedremo ancora?” chiesi cercando di far finta di niente.

“Facciamo un... esperimento?”

Lo guardai perplesso.

“Beh, perché non passate per di qua stasera verso le otto, tu e il tuo amico italiano, per un aperitivo, e poi noi quattro, io con il mio Arthur, e tu con il tuo...”

“...Giulio...”

“... andiamo a mangiare qualcosa in un ristorantino qui vicino. Non c’è modo migliore di capire se abbiamo un futuro insieme.”

“OK,” risposi un po’ esitante.

Edward mi diede il “digicode” dell’ingresso principale dell’edificio, mi lanciò un’occhiata un po’ sofferta, e mi fece uscire.

Certo, rimasi nervoso da quando ci lasciammo fino all’ora dell’aperitivo, ma Giulio non diede segno di sospettare qualcosa.

Dopo essermi rinfrescato in albergo, presi la RER per l’aeroporto, per evitare di insospettirlo, quel pomeriggio stesso in albergo gli diedi una prova tangibile del mio amore, e poi trascorremmo alcune ore a passeggiare per le strade del Marais.

Quanto a Edward, dissi a Giulio nel modo più casuale possibile, che avevo “scambiato quattro chiacchiere” con qualcuno la sera prima, e che l’amico di questo qualcuno avrebbe forse potuto aiutarmi nel mondo del cinema, per cui eravamo invitati da questa persona, un certo Edward, verso le otto di sera.

L’atmosfera della serata non era lontana da quella di una pièce de boulevard di Feydeau, o di un racconto di Françoise Sagan.

Edward ed io riuscivamo a stento a nascondere la nostra attrazione reciproca.

Si sa com’è... un timido sorriso ogni tanto, con il risultato che Giulio e quell’Arthur – un uomo attraente ma alquanto pretenzioso – avevano una faccia da funerale.

Per di più, Edward e io non ci peritavamo di giocare sul filo dei nostri privati doppi sensi, con lui che mi chiedeva se trovassi “romantica” la vista dei tetti di Parigi mentre io dopo un paio di kir gli chiesi dov’era la toilette, proprio come se non fossi mai stato in quell’appartamento. Proprio...

Il pranzo al ristorante “Madame sans gêne” fu se possibile ancora più frivolo per Edward e per me, e ancora più teso per Giulio ed Arthur.

Ci toccavamo sotto il tavolo, praticamente senza badare ai nostri rispettivi consorti, e continuavamo a fare commenti a doppio senso sulle portate.

“Come sono le tue animelle e rognoncini ?” Edward mi chiese.

Squisite!” risposi, “e la tua coscia?”

“Deliziosa,” Edward rispose, offrendomi la coscia che aveva iniziato a mangiare e che io rosicchiai fino all’osso, sotto lo sguardo inquisitorio di Giulio.

Una volta congedatici da loro, Giulio e io andammo a sederci in un caffé a Place de la République, dove mi sottopose a un terzo grado.

“Eri strano stasera.”

Spallucce.

“Dov’è che hai incontrato questo Edward?”

“Te l’ho detto, allo One Way.”

“E non avete fatto niente insieme?”

“Ma sei matto?!” sbottai. “Edward non è per niente il mio tipo, e in più è stato abbastanza onesto da confessarmi di essere sieropositivo.”

Giulio, con la faccia quasi viola, chiama immediatamente il cameriere.

Monsieur, può portarci un cognac? E di corsa.”

“Hennesy, Rémy Martin, Courvoisier?”

“Quello che ha il maggiore volume di alcol... e presto per favore!”

Certainement, monsieur.”

“E adesso risciacquati bene la bocca,” mi ordina Giulio quando arriva il cognac. “Sei pazzo, ti sei pappato quella coscia che era appena stata nella bocca di uno sieropositivo?!”

Obbedii da bravo bambino e rimasi sul mio sgabello per due minuti con le labbra sigillate.

Dopo di che scesi alla toilette, dove ammirai allo specchio la mia faccia divertita, per poi scoppiare in una delle più sonore risate della mia vita.

Giulio! Così ingenuo, e stupido, e pronto a farsi prendere dal panico, come se potessi prendermi l’AIDS in quel modo......

Eppure, vedendo la sua preoccupazione per me, non ho voluto rischiare il nostro amore per quell’Edward!

E per coronare questi eventi accaduti tanto tempo fa, non poteva non venirmi alla mente il detto di Barbey D’Aurevilly, che trovate galantemente citato all’inizio di questa storia vera.

Jan Vander Laenen

jan.vanderlaenen@skynet.be



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