Le recensioni di Emilio Campanella: Dicembre 2003


MUSICA E TEATRO GIAPPONESE A VENEZIA

Ad una settimana di distanza due occasioni stimolanti all'Auditorium di Santa Margherita.

Se talvolta ho dubbi sull'utilita' dell'acquisto del foglio locale, e' in queste situazioni che mi convinco di quanto sia importante avere le notizie "spicciole" di questo come di altro tipo. Sono riuscito, infatti, ad assistere ad un emozionante concerto di j_ruri sapendolo quasi all'ultimo momento e riuscendo ad entrare a sala gia' gremita. Il primo brano l'ho ascoltato in piedi, ma poi ho trovato posto poiche' non tutti se la sentono di seguire un concerto per voce e shamisen, anche se il primo brano era per due voci e tre strumenti. L'ottima organizzazione aveva fornito i sopratitoli dei testi interpretati e l'agile presentazione del Professor Bonaventura Ruperti aveva introdotto ad un'arte nota, da noi, solo ad appassionati e studiosi. In effetti si trattava di uno degli elementi portanti degli spettacoli del Bunraku (teatro di marionette di Osaka), ma senza la parte visiva, quindi senza gli straordinari pupazzi - che qualcuno avra' ben presente avendo visto Dolls di Kitano - che sono tra l'altro elemento fondamentale di una forma teatrale nata verso la fine del XVI secolo e che ha in Chikamatsu Monzaemon il suo cantore piu' importante, ed i cui drammi, poi, venivano e vengono ancora rappresentati anche dal Kabuki. Le vicende narrate da Takemoto Chitosedayû e da Toyotake Mutsumidayû, due interpreti straordinarî e molto differenti vengono dal dramma UNA MIRIADE D'ANNI, e sono parte dell'atto VII in cui si scontrano destini dinastici complicatissimi, onore, sacrificio, passioni estreme e suicidî rituali.

Ammetto che lo spettacolo integrale mi e' molto mancato, ma altresi' che la capacita' interpretativa dei cantanti era tale da coinvolgere egualmente nell'intreccio del dramma ed a garantire emozioni molto forti. I cinque artisti sono parte del complesso del Teatro Nazionale del Bunraku di Osaka.

Il 16 ed il 17 ottobre invece sempre nel medesimo luogo, di grande fascino: chiesa gotica dall'interno barocco che e' stata teatro, cinema, ed ora dopo il restauro e' una delle sale conferenze gestite dall'Ateneo veneziano, e che in alcune occasioni, non rarissime per fortuna, ritorna ad essere sala teatrale, e' stata ospitata la compagnia di Kyôgen Izumi, sempre sotto l'egida del Dipartimento di Studi sull'Asia Orientale. Ancora una volta con il coordinamento del Professor Ruperti, anche interprete della breve ed interessantissima conferenza sull'argomento tenuta dall'attore e capo compagnia Izumi Motoya appartenente ad una dinastia che si tramanda quest'arte da venti generazioni. Per la prima volta attrici calcano il palcoscenico del Kyôgen tradizionalmente riservato ad attori uomini, come ogni teatro antico di quasi tutte le latitudini.

Originariamente le farse del Kyôgen fungevano da intermezzo fra i drammi negli spettacoli di nô, ultimamente vengono rappresentati a se' stanti. L'epoca e' la medesima e la qualita' tecnica, pur differente, e' dello stesso altissimo livello. Unica forma teatrale giapponese antica i cui attori recitino a volto scoperto e senza trucco. Come ogni teatro comico riesce, pur con i suoi rigidi stilemi, a comunicare agevolmente con qualunque tipo di pubblico grazie a vicende brevi, agili e particolarmente gustose.

Il programma era composto da Suminuri (Tintura d'inchiostro) in cui due amanti si lasciano e piangono ipocritamente di rimpianto, ma lei per farlo meglio usa nascostamente acqua per fingere la copiosita' delle lacrime. Lo scaltro servitore del signore accortosi dell'inganno lo sostituira' con inchiostro nero con cui la donna s'imbrattera' il volto che le verra' rivelato dallo specchio, dono d'addio dell'amante. Va da se' che alla fine tutti si troveranno imbrattati, come dire...

Nella seconda storia Bonsan (Paesaggi in miniatura), un uomo inividioso s'introduce nella casa di un collezionista di bonsan per rubargliene almeno uno visto che quello non gliene aveva mai concesso alcuno. Il padrone di casa accortosi di una presenza estranea accorre, ma riconoscendo poi di chi si tratta decide di divertirsi alle sue spalle dicendo di aver sentito il rumore di animali via via diversi costringendo il clandestino ad imitarne i versi fino a provocarlo con quello di ... un'orata!... complicazioni.

Terzo e ultimo "pezzo" Neongyoku (Musica dormendo) in cui un signore tirannico vorrebbe obbligare il servitore appassionato e dotato interprete di nô, a cantare ad libitum. Quello si schermisce con varî escamotages, quali abbondanti bevute di sake' e desiderio di cantare con la testa appoggiata sulle ginocchia del padrone. Come dire che stando dritto la voce non uscirebbe ed accoccolato si'. L'espediente dura un poco, ma poi egli si confonde e l'inganno viene scoperto. Cio' che e' interessante e' il lato metateatrale della farsa in cui viene proposto un passo del nô Ama (La pescatrice di perle) e nella quale, alla fine, lo spirito del teatro prende il sopravvento e possiede il protagonista.

Izumi e' magnifico nel rendere i passaggi vocali faticosamente emessi in una postura e fluidamente nell'altra e si dimostra, come non avevamo dubbî, ed a confermare le nostre osservazioni iniziali, notevole interprete di nô.

La serata si e' conclusa con un successo molto cordiale e festoso.

Emilio Campanella


LA BIENNALE TEATRO DI PETER SELLARS

Massi', li' per li', poteva proprio sembrare una piccola Biennale Teatro, con quelle date cosi' ravvicinate fra inizio e fine tra il 23 ottobre ed il 1° novembre, ed invece, che sorpresa!

Intanto la sollecita ed attenta, continua presenza del direttore Peter Sellars, anche a presentare i film, poiche' il programma si componeva, appunto, di alcune pellicole molto importanti, alcuni incontri con i registi ed altre personalita' come Toni Morrison, Amin Maalouf e Alice Waters; ed i tre spettacoli.

Tutto intorno a cio' che maggiormente concerne i diritti umani, la liberta' personale, quella di esprimersi.

Il primo spettacolo SAMRITECHAK per la regia di Sophiline Cheam Shapiro e' un dramma cambogiano d'impianto tradizionale con l'abituale apparato di costumi sontuosi, orchestra e coro dal vivo che canta e narra le vicende che vediamo agite dalle interpreti, tradizionalmente tutte donne, a parte il cattivo 'Virul, la scimmia' straordinario personaggio di danzatore, attore, acrobata memorabile. La vicenda e' quella di Otello, con nomi differenti, qualche leggera modifica, e ben sintetizzata in 90 minuti di coreografie ipnotiche ed astratte che dimostrano come il connubio fra un grande testo ed una importantissima forma teatrale, pur lontanissimi, possono funzionare, se intersecati, benissimo. Ricordo al Nazionale di Milano, molti anni fa, una Medea di Euripide, interpretata da una troupe di Opera Cinese, memorabile, anche in quel caso.

Una delle grandi qualita' dello spettacolo e' di porre l'accento sui conflitti in maniera 'alta', infatti quasi non c'e' violenza, ad esempio Samritechak (Otello) uccide Khanitha Devi (Desdemona) con una magia (e cosi' fara' anche per se stesso), e lei sara' subito dopo gia' come una divinita' trapassata. Ho visto lo spettacolo due volte, una non mi bastava certo, ed il pubblico era ogni volta, veramente con il fiato sospeso, ammaliato, incantato, merito anche delle luci straordinarie di Marcus Doshi, indimenticabile anche lui, quando e' uscito durante le ovazioni finali.

Piu' fragile il lavoro dello stesso Sellars: THE LOVE CLOUD, tratto dal poema omonimo (piu' o meno) di Kalidasa, e' frutto di uno stage di circa una settimana, come ha osservato lo stesso regista, e proposto come prova aperta, ma in realta', poi gia' quasi presentato come spettacolo, mentre si tratta di qualche cosa di appena abbozzato, pur con idee notevoli, infatti, che tutta la vicenda sia narrata da quello che potrebbe essere un prigioniero di Guantanamo Bay in preda ai suoi sogni e deliri di uomo privato della liberta' e' notevole, ma e' solo, per ora, un'idea. Tutto e' un po' troppo messo in scena per essere in progress ed al contempo eccessivamente abbozzato per andare in scena. Sarebbe forse valsa la pena di proporlo giusto come assaggio, ma con piu' interventi del regista e meno danze 'casuali' che non possono se non distrarre dal lavoro degli attori.

Ben altro discorso merita PARADISE di Lemi Ponifasio, spettacolo oltremodo strutturato, costruito, pensato, equilibrato, senza per questo perdere di spontaneita' ed impatto visivo ed emotivo con il pubblico.

Diviso in tre parti, la prima sacrale e coreograficamente corale, e' un rituale che evoca spiriti ed entita' telluriche, ed e' al tempo stesso consacrazione dello spazio, benvenuto, e scambio con il pubblico il cui corifeo era sempre P.S. che rispondeva con un omaggio alla compagnia. all'offerta di pace di quest'ultima, poi, prima di prendere posto, poiche' alla prima parte si assiste in piedi, si puo' accedere al luogo sacro del rituale scenico venendo accolti da una mamma vestale protettiva e affettuosa che ci rivolge dolcissime parole (ai piu' incomprensibili) di benvenuto e prendendoci le mani accosta la fronte e la radice del naso al nostro in un saluto concentrativo ed intenso.

La seconda parte e' piu' teatrale in senso tradizionale ed e' un continuo avvicendarsi di immagini, personaggi, e situazioni piu' spesso simbolici che se non sempre sono chiarissimi costituiscono un insieme ed un succedersi di avvenimenti estremamente coerente.

Ci sono tanti elementi che contribuiscono, intanto un perfetto equilibrio fra voce, suono, e musica registrata, luci molto accurate ed 'avare' in cui si nascondono evocazioni, spiriti, ectoplasmi, presenze ed anche continue piccole sorprese. Ci sono spesso contrasti bianco-nero soprattutto in senso morale, infatti una ragazza 'schiarita' si contorce a terra in una dolorosa interpretazione di crisalide molto buto, mentre una creatura dal corpo scultoreo, scurito, si muove come un misterioso animale, come un uccello, saltellando, agitando una canna sormontata da una piumetta.

All'inizio, sulle note dell'inno nazionale neozelandese, un uomo, elegantemente in giacca e pareo rade a zero i capelli ad un altro... immagine emblematica che introduce alle visioni di pianto di un 'paradiso perduto' in cui 'lo spirito dei morti veglia' e soffre, mentre un uomo in abito grigio danza il suo essere rovesciato sino a cadere a terra in preda ad una crisi, quando, poco prima, in penombra, tre uomini come lui con coni accesi in bocca, quasi viventi vulcani vorticavano su se stessi, in un angolo un 'basso rilievo' di umanita' ferita...

Cio' che colpisce e' la capacita' di P. di mescolare materiali eterogenei con estrema disinvoltura e farli funzionare alchemicamente assieme, infatti ho riconosciuto echi dei Pilobolus di 30 anni fa e dei Sankai Juku ed altre evocazioni giapponesi, come gia' notato, finanche la Maguy Marin di EDEN nel finale della seconda parte, ma tutti i materiali sono usati con coerenza e vanno a segno nelle intenzioni e nell'economia generale.

Ci sono personaggi che ritornano come la donna di cui sopra, ed il geco non ancora citato che e' la cifra di tutta l'azione, con le sue apparizioni, i suoi passaggi, le sue uscite di scena repentina, come quelle dei gechi, appunto.

C'e' una scena molto forte in cui tre uomini appaiono dietro altrettante vasche di plexiglass come teste in formalina, per poi apparire nell'interezza e nello splendore dei loro corpi seminudi, salendo sugli oggetti trasparenti, coperti solo da strani ed inquietanti astucci penici cascanti, e muoversi lentamente, prima di scomparire, modellati da luci sapienti che ne fanno dei totem (qui il riferimento agli americani di cui sopra), passando per un episodio breve ed intenso che in mano alla FURA DEL BAUS si sarebbe trasformato in una performance di almeno un'ora. Gli episodî sono molti fino ad una denuncia dura e scenotecnicamente perfetta delle deflagrazioni atomiche, mentre i personaggi vanno, vengono, vagano... Da ultimo tutta la compagnia, elegantemente vestita, in proscenio, ci guarda in un lungo momento di concentrazione. Applausi convinti.

Ma non e' finita, poiche' fuori ci aspetta un buffet di pane trentino e Marzemino, poi il corifeo della compagnia inizia un canto, ci rivolge delle parole che ancora una volta non comprendiamo, il pubblico forma un cerchio, tutti gli interpreti sono nuovamente di fronte a noi e nel cerchio sacro e magico ci ritroviamo con vino e pane fra le mani: un caso?

Il nostro corifeo, P.S., ci da' la possibilita' di un ringraziamento per cio' che ci e' stato offerto dagli attori, ed ecco il baratto rituale, ognuno offre qualcosa: delle parole, una piccola danza, un ringraziamento, un saluto: non si andrebbe piu' via.

Emilio Campanella