Le recensioni di Emilio Campanella: Gennaio 2002

BUDAPEST

GLI EBREI NELLA TERRA DEL SOLE

FALSTAFF A BOLOGNA

SAMSON ET DALILA

TANCREDI AL MALIBRAN DI VENEZIA


BUDAPEST

 

Solo molte ore dopo il mio arrivo mi sono reso conto di quanto, e da quanto, e quanto in profondità, fosse radicato il mio desiderio di visitare questa città.

Il sogno di una città orientale nel cuore dell'Europa centrale, le ­ poche visibili ­ vestigia della dominazione ottomana, la coesistenza di un'anima barbara con le "mollezze" del medio oriente.

La monumentalità degli edifici, l'equilibrio di tre città unite e magicamente divise da un grande fiume; la fantasia dell'architettura secessionista; l'eleganza dei teatri, l'emozione della prima sotterranea continentale, appena sotto il livello stradale, impossibile a pensarci, quasi una discesa agli inferi facile facile e fin de siècle !

Si può essere adescati con qualunque pretesto: alloggio, cambio, sesso, trasporti, cucina ecc. specialmente nella bellissima stazione internazionale di Keléti, architettonicamente stupenda e con un affascinante bisogno di restauro; oppure nella commerciale via Vàci, basta tirare dritto oppure no.

Io ho tirato dritto, anche perché so cosa voglio e sapevo dove trovarlo, specialmente grazie alla mia preziosa guida: un delizioso orsetto triestino che conosce bene la città e la lingua, per cui mi sono lasciato accompagnare (in un gelido pomeriggio) fra i vapori dei Bagni Kerali (insieme ai Rudes) uno dei più antichi stabilimenti della città (1576) ancora con vestigia turche dove sotto la cupola ottomana, nella vasca tiepida uomini di tutte le età forme e dimensioni stanno a mollo conversando, guardandosi, toccandosi, massaggiandosi ma sotto il pelo dell'acqua, sì, in penombra, ma ben trasparente !

Si può optare per il vapore o per il calore secco, ma non sperare in alcuna privacy, anche se nessuno a "qualche" erezione, masturbazione, ovvero si, ma con stile e ammirazione !

Capita di notare la faccia tipica, proprio mitteleuropea, con quel pizzico di oriente nel taglio degli occhi azzurri e nella curva del naso, ma poi scopri che il "magiaro" è un turista come te e che viene da Sidney !!!

La serata si conclude "in cantina" nel simpatico ACTION CLUB (Magyar utca 42) dove la musica non è assordante, la gente molta, ma non troppa, i tipi eterogenei e l'atmosfera rilassata; anche qui orsoni e orsetti con grandi boccali di birra (non è a pagamento l'ingresso, ma non si può consumare meno di una certa cifra limitata, ma ci si può inciuccare facilmente se non si sta attenti.

Concludo con l'emozione di nua tarda mattinata nei magnifici bagni dell'Hotel Gellert, edificio secessionista sontuoso, il cui istituto termale ha tutti I rituali primonovecenteschi, come i grembiulini "cache-sex" che bagnati fanno un effetto notevole, e lasciano liberi glutei talvolta sontuosi, Io, da buon naturista, lo tenevo in mano, salvo stenderlo per sedermici. Anche qui vapori e calori secchi con giochi discreti ma non discretissimi e orsoni assatanati che si masturbano quasi coram populo, salvo poi trovare assistenti (che non mancano mai) per aiutarli ad allentare la tensione !

Ma l'immagine più bella l'ho colta entrando nella grande sala a volta (decorata con straordinarie maioliche) dove due signori seduti sui gradini della vasca più calda (38°, una meraviglia !) giocavano tranquillamente a scacchi. Una scena che nell'insieme mi ha fatto pensare alla Scuola di Atene di Raffaello.

Nell'acqua uomini belli, meno belli, bellissimi, tutti molto naturali: col pelo, con la pancia, con barba o baffoni: entri e non ne usciresti più !

E invece bisogna ripartire, ma dopo un bel giro al Museo di Belle Arti.

Il giorno seguente, un po' rintronato dal viaggio, ero nuovamente a Venezia e sono riuscito a superare la nostalgia solo nel pomeriggio, passeggiando in Riva degli Schiavoni e, guardando le ombre della sera sopraffare uno struggente tramonto sul bacino di San Marco e osservando I profili di cupole e campanili/minareti ancora e sempre fra oriente e occidente.

Emilio Campanella



GLI EBREI NELLA TERRA DEL SOLE

 

Una bella mostra gira per l'Italia, ma non so dirvi quali saranno le sue prossime tappe. Io l'ho vista a Trieste grazie a un manifesto che mi ha incuriosito e che ritrae una bella ragazza in costume tradizionale, la foto è seppiata e in grande si legge: Sefardim, gli Ebrei delle terre del sole.

Allora mi sono informato e, con alcuni amici mi sono arrampicato in via del Monte dove il vento s'incanalava, quella sera, con grande divertimento.

Abbiamo suonato al n. 5 e salendo al primo piano siamo stati accolti da un simpatico custode che ci ha dato alcune indicazioni relative a ciò che ci interessava: intanto la visita al piccolo e importante museo della Comunità Ebraica della città intitolato a Carlo e Vera Wagner. Poche sale, pochi oggetti esposti rari e preziosi, con cura e con gusto, il poco ch'è rimasto dopo la spaventosa bufera della Shoah; fra questi l'interessantissimo libro maestro di un mercante, datato 1600-1601 e scritto in caratteri ebraici, ma come traslitterando l'italiano/triestino dell'epoca, un inizio di yiddish italiano, quello che a causa dell'immane tragedia non ha potuto svilupparsi come aveva cominciato a fare al principio del novecento.

Oltre a ciò una vetrina terribile con grandi buste gialle di carta con l'intestazione di una banca, e sprsi intorno gli oggetti che contenevano ritornati alla Comunità: penne stilografiche, piccoli gioielli, ciondoli, orologi, occhiali requisiti dai persecutori non so che altro aggiungere, la visione di quelle piccole cose personali mi ha toccato talmente in profondità come difficilmente sarà possibile che dimentichi.

Si sale, poi al secondo piano dove, in una sala ampia e luminosa si è accolti dal direttore del museo, il cortesissimo Dott. Ariel Haddad, e si scopre che la mostra è costituita da una collezione di cartoline d'epoca che ripercorrono la storia, gli usi, la cultura degli Ebrei spersi (sparsi ?) fra il bacino del Mediterraneo ed il Medio Oriente.

Tutto parte da una pubblicazione firmata da Gérard Silvain ed esita in Italia da Alinari; il volume è consigliabilissimo poiché integra l'esposizione che segue, nei suoi pannelli, I vari punti di vista di classificazione dei 'pezzi': geografico, sociologico, folkloristico, storico, religioso, culturale, etc.

Ma tutto ciò può avere letture non solo "orizzontali" o "verticali", ma anche "trasversali" e ognuno può seguire un suo filo, un proprio criterio di visita.

Da notare che se il catalogo è più completo in certe parti, la mostra lo è in certe altre, ad esempio per ciò che riguarda il nostro paese la sezione è ben più ampia.

E' doveroso aggiungere che il direttore (ad occhio più o meno 3oenne), elegantissimo con il suo cappello nero a larga falda, una felpa grigia sotto la barba fluente e i pantaloni neri tradizionali è un BELLISSIMO orso oltreché, come ho già detto, cortesissimo e molto cordiale.

 

Emilio Campanella


FALSTAFF A BOLOGNA

 

Un'altra bella occasione, pochi giorni dopo a Bologna dove la stagione del Comunale ha inaugurato con un bel Falstaff, che assommava tre debutti: quello di Pier Luigi Pizzi (come sempre autore anche di scene e costumi), quello di Daniele Gatti (solo parziale, avendolo già diretto precedentemente in concerto) e quello di Michele Pertusi quale protagonista.

Al di là del pelo nell'uovo e del capello spaccato in sedici, si è trattato, a mio avviso, e non solo mio, di uno spettacolo riuscito, infatti se la direzione poteva dar l'impressione di "timidezza" era, peraltro, molto attenta, e l'allestimento era decisamente godibile e misurato, scegliendo, di eliminare tutte le beceraggini da comicità d'antan per seguire invece una linea sobria che risultava vincente nei confronti della musica che ha già in se tutti i germi ­ come sfaccettati ­ della commedia amara di Sir John, come degli altri personaggi "tutti gabbati".

Le scene agili erano costituiti da edifici le cui facciate scorrevano a mostrare l'interno e vari piani, come di case di bambole, e che velocemente ruotavano su se stesse a fingere altri edifici e differenti punti della città tardo ottocentesca sempre coerentemente con l'azione, e specialmente con il libretto.

Ma la commedia elisabettiana cacciata dalla porta rientrava per la finestra nella mascherata finale in tutto e per tutto rinascimentale, e ben consciamente in un riferimento alla shakesperiana "notte d'estate" con un trionfo di maschere "veneziane" ma di quelle belle, mantelli sontuosi, selve di corna e lanterne, quasi una Rificolona, e per giungere al concertato finale durante il quale gli interpreti si spogliano degli abiti di scena e si abbracciano congratulandosi fra loro come se già il sipario fosse chiuso sul finale: ottima idea registica che continua con i bellissimi, festosi, giocosi saluti che riescono a far dimenticare un albero secolare di rara bruttezza !

Il protagonista via via misurato, sornione melanconico e sconfitto è anagraficamente troppo giovane (per quanto imbottito, truccato, infagottato e papalinato, oltre al piedone fratturato che lo faceva sembrare coerentemente gottoso e per cui si è dimostrato provvidenziale l'ascensore dell'Osteria della Giarrettiera) ma già pronto a riaffrontare il ruolo avendo già iniziato un buon lavoro di scavo psicologico. Va da se la qualità del canto e del fraseggio.

Ottimi comprimari : Paolo Barbacini (Bardolfo) e Andrea Silvestrelli (pistola); notevole Ford, Roberto Frontali e di bell'aspetto un poco ursino.

Mariana Pentcheva (Quickly) un poco debordante, ma non troppo.

Nannetta (Eva Mei) picevolissima e appassionata come il suo Fenton (Giuseppe Filianoti).

La bella e brava Alice di Svetla Vassilieva e Debora Beronesi (Meg) non ultime per qualità.

 

Emilio Campanella


SAMSON ET DALILA

 

Ci sono tante stagioni, non solo quattro (o due, ormai ?) come sembrerebbe, e talune si avvicendano più velocemente e festeggiano ad esempio, le inaugurazioni delle mostre, per cui bisognerebbe scapicollarsi da una città all'altra per essere presenti a tutte: fra fine Novembre e inizio Dicembre, e qui va a fortune, a seconda di dove ci si trova e che cosa si riesce a vedere. Personalmente quest'anno mi è andata bene, poiché a Genova al Carlo Felice ha aperto la stagione con Samson et Dalila di Camille Saint Saens.

Scelta già di suo coraggiosa e fuori dal repertorio più frequentato, e l'ha affidata a un regista di grande personalità, nel bene e nel male, come Hugo de Ana che l'aveva già allestita a Macerata e si prepara a riaffrontarla alla Scala in questa stessa stagione.

La scommessa era sicuramente allettante per uno spirito provocatorio come il suo, e infatti l'allestimento colpisce fortemente: grandi torri di griglie metalliche (prigioni, ascensori, scheletri di grattacieli ?) incombono attorno all'ampia scena abitata da moltitudini di comparse, danzatori, coristi (mossi con molta intelligenza) dapprincipio portando in giro pezzi di automobile, qualcuno ha scritto: come a cercare di ricomporre un impossibile veicolo, forse anche a vendere come in un mercato della disperazione, ciò che riescono a trovare.

La situazione è cupa e un opera "squilibrata" come questa fra oratorio e "grand opéra" e, secondo me, interessante proprio per questo, trae vantaggio da una messa in scena come questa che utilizza con grande capacità le masse.

Un buon lavoro di direzione di Michel Plasson contribuisce ad appoggiare il coro efficace di Ciro Visco e gli interpreti: Samson ­ Clifton Forbis, Dalila ­ Dolora Zajick, Abimelech ­ Askar Abdrazakov, le grand pretre de Dagon ­ Lado Atanaeli, tutti vocalmente piuttosto a posto, Samson di bel timbro, Dalila un po' troppo potente e di nessnua sensualità, inconveniente quetso, risolto dal regista con un escamotage rappresentato da un lungo drappo rosso che lei lancia a lui e che rappresenta la passione, come dire che se la loro stoffa dei passionali non ce l'hanno, ci pensa il regista a dargliela in mano, in un modo o nell'altro !

Ed è il momento clou dell'opera, un duetto che non è un duetto, un'aria del mezzosoprano con minimi interventi del tenore, ma di grande intensità, quasi wagneriano (quasi !) poi la situazione precipita e ci troviamo in pieno baccanale reso coreograficamente da Leda Lojodice (non al suo meglio, questa volta) e poi nel finale in cui la forza di Samson, per un breve momento, tornerà, grazie a Jahvé e farà, anzi, farebbe crollare il tempio di Dagon, ma dopo l'11 settembre (il progetto è precedente e prevedeva la catastrofe) nulla cade più, solo una luce abbacinante investe tutto e tutti, come se la scena e il teatro venissero fulminati da un'immane saetta.

Un pubblico molto attento, poche caramelle, pochi parlottii, quasi mai tosse e un seccesso pieno.

 

Emilio Campanella


TANCREDI AL MALIBRAN DI VENEZIA

 

Eppure c'è qualcuno che ha avuto il coraggio di parlarne bene non se ne può né male né bene, non se ne dovrebbe parlare come di qualcosa che non è !

Ed ora i perché. Perché la direzione di Jonathan Webb (peraltro più adatto per altri autori) é praticamente inesistente, piatta e soporifera; perché tra regia, scene e costumi, colpevoli della prima, Stefano Vizioli, e del resto Alessandro Ciammarughi, è tutto di una vecchiezza inimmaginabile oltre alla più totale mancanza di criterio nell'uso dello spazio scenico; perché il light designer Franco Marri, pur volenteroso, non riesce a migliorare la situazione, e da ultimo perché dal punto di vista vocale non va meglio, infatti Patricia Bordon non convince, né per autorità nel ruolo né per qualità vocali (oltre a essere punita da un costume che la fa rassomigliare a un moschettiere, ma questo non è colpa sua); perché l'Amenaide di Patrizia Cigna (cognome impegnativo !) è mortalmente noiosa e le cadenze di cui parlava in un'intervista radiofonica non sono riuscito a coglierle; l'Argirio di Bruce Ford corretto e niente più; non ricordo né l'Isaura di Maria José Montiel e neppure il Ruggiero di Alla Simoni; unico possibile e anche gradevole (pure all'aspetto) l'Orbazzano di Enrico Turco.

Ora, per concludere, mi domando quale senso possa avere una simile operazione.

Si tratt della versione di Ferrara del 1813, nell'edizione critica della Fondazione Rossini di Pesaro, e quindi integrale, con tutti i possibili da capo, ma se si ha a che fare con una bella interpretazione è un piacere senza fine (fatta salva la "noia sublime", secondo alcuni) ma in questo caso è NOIA e basta !

Tutto è piatto, monocorde, senza nessuna emozione, senza "affetti" ma neppure effetti.

E, naturalmente, dimenticandosi di tutto e tutti ed ogni interpretazione e registrazione precedente, peraltro distante in ALTISSIMO numero di anni luce !

CHE PECCATO !

 

Emilio Campanella




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