Le recensioni di Emilio Campanella

Febbraio 2005


ARTI e ARCHITETTURA

LA SACRA SELVA

TRISTI MOSTRE A TRIESTE

VITA MIA di Emma Dante

CONFIDENZE TROPPO INTIME di Patrice Leconte

ARIADNE AUF NAXOS al Teatro Comunale di Ferrara

I PESCI di Alessandro Merlin


ARTI e ARCHITETTURA

Potrebbe, a buon diritto, essere definita una mostra / monstre, quella pensata da Germano Celant a Palazzo Ducale, a Genova come uno degli ultimi eventi (cronologicamente) di questo pieno e glorioso anno della cultura genovese; in effetti, iniziando molto prima (2 ottobre) e finendo un bel po' dopo (13 febbraio) la fine del 2004, copre un bell'arco di tempo, e con i suoi oltre mille pezzi esposti, anche un'ampio spazio.

Dividendosi in due, quindi, affollate sezioni con un ex cursus temporale molto esteso, la prima nel piano Sottoporticato, che dal 1900 al 1970, la seconda, negli appartamenti dogali, ed altri ambienti del piano nobile, dal 1970 al 2000; una terza stimolante sezione di installazioni in varî punti della citta', come ad esempio Il teatro del Mondo di Aldo Rossi ricostruito in piazza Caricamento, Ginger e Fred di Frank O. Gehry in p.za S.Lorenzo, Cornelia di Anselm Kiefer in p.za S.Matteo (nel magnifico, preziosissimo chiostro medioevale una gigantesca seggiola rossastra di Rossi... ti senti un po' come in un episodio di Alice, e' solo un'idea collaterale alla mostra, ma ottima!), The golden calf di Hans Hollein in piazza Fontane Morose, il modello gonfiabile "Hyperbuilding" di Rem Koolhaas nel chiostro triangolare di S.Agostino, proprio accanto all'imperdibile La Sacra Selva, di cui parlo a parte. Molte altre installazioni oltre ad una scelta di 50 bilboard dislocati in altrettanti punti.

Divertente e divertita la reazione dei genovesi poco abituati ad opere "en plein air", qualcuno preoccupato, qualche altro indignato, ma nell'un caso come nell'altro possono rassicurarsi che l'invasione e' solo temporanea.

Consiglio caldamente una visita attenta (ed occorrera' un buon lasso di tempo) poiché il percorso e' molto ampio ed anche solo per seguire la parte cinematografica (accuratissima) occorrerebbero alcune ore. Ho sentito dire di qualcuno che si sia lamentato della mancanza di supporti informativi, puo' essere vero, ma anche voluto data la sottile cura con cui il viaggio nel tempo e' proposto. Direi che puo' anche essere un modo per lasciare libero il visitatore, di emozionarsi , di volta in volta, per un modello, un disegno, un dipinto...

Gae Aulenti ha impreziosito le volte di questo piano quasi sotterraneo, inargentando gl'intonaci bianchi che anni fa P.L. Pizzi aveva dipinto di porpora. Poi tutto tornera' al colore originario con un bel contrasto con la pietra grigia dei pilastri di grande semplicita' e rigore.

La seconda sezione, un po' piu' discussa, da alcuni che ritengono piu' riuscita la prima, ci e' piu' vicina, e puo' risultare, pero', anche piu' "divertente"... peraltro, montare un'esposizione cosi' estesa, mantenendosi sempre al medesimo altissimo livello di tensione, non e' facilissimo; comunque, vista e rivista (e non e' finita) risulta sempre estremamente stimulante ed interessante; sicuramente piu' dell'ultima Biennale Architettura, ma non e' neppure un complimento, in effetti!

Vi racconto solo due opere: una negli appartamenti del Doge, ed e' il gigantesco pescione/casa di Gehry (The GFT Fish 1985/86, Rivoli, Museo di Arte Contemporanea), ed un magnifico modello del "package" del Reichstag, che data l'ampiezza dell'ambiente ­ il salone del minor Consiglio ­ e l'altezza del soffitto, crea un effetto di "mise en abîme".

 

emilio campanella


LA SACRA SELVA, a Genova sino al 13/3/2005

Con molta sensibilita', molta discrezione, un minimo, essenziale ed esauriente apporto informativo, su alti pannelli rosso scuro, volontariamente, i curatori lasciano parlare le opere scelte ed esposte nella chiesa sconsacrata di S.Agostino. Spazio da molto tempo abbandonato dall'originaria destinazione conventuale, museo della scultura ligure, gia' nel 1939 ospito' una mostra similare (intorno alla genovese confraternita' delle Casacce). Poi la guerra, i bombardamenti, l'abbandono, un lungo, tormentato periodo di restauri; successivamente la riapertura del museo, bellissimo, con opere straordinarie, basti pensare ai frammenti del monumento funebre a Margherita di Brabante di Giovanni Pisano. Museo mai fruibile nella sua interezza per ragioni organizzative. E, finalmente anche il restauro della chiesa (sec.XIII), dapprima pensata come opinabile auditorio, poi, piu' coerentemente come luogo per mostre, e finalmente, ora, ideale contenitore (mi si passi il termine maldestro) per questa Arte Sacra lignea in Liguria dal XII al XVI sec.

 

Sapientemente illuminate, le sculture, sono come evocate dalla penombra delle navate e delle nicchie, ora prepotentemente come il volto santo (crocifisso tunicato) del XII sec. dalla grande forza quasi barbara, ora piu' sommessamente come una Pieta' intorna al 1470 proveniente dai Paesi Bassi, od il Compianto su Cristo morto intorno al 1470/80, le cui figure (8) sono state disposte un po' piu' discoste, l'una dall'altra, in confronto con l'abituale, e per fruirne meglio, ma anche a dilatare l'emozione della scena rappresentata. Direi che la cifra e' il pathos di questa drammaticita' contenuta e sospesa e fermata da immagini devozionali di alta qualita' artistica (nella maggior parte, restaurate per l'occasione) che si trovano a dialogare con un luogo adatto ad esaltarne la carica spirituale. Si puo' riscontrare ingenuita', forse, ma comunque, sempre una notevole immediatezza nella 'maniera' di rappresentare, basti pensare al teatralissimo Retablo della Storia della Passione, affollatissimo, movimentato, ricchissimo di particolari, e quasi bozzettistico, di Bottega di Bruxelles (1510-1515), a modo suo "rumoroso" e che contrasta e si oppone al Cristo citato in apertura fronteggiandolo direttamente da un capo all'altro dell'edificio. L'uno come l'altro, testimonianze di mondi gia' molto differenti, parlano a chi crede, come a chi non crede, con la loro forte, umanissima pieta'.

Peccato che il pur bel catalogo non possa testimoniare dei bei pilastri semplicissimi, a sostegno delle opere, e dei rivestimenti parziali del pavimento (del medesimo rosso di cui sopra) a contrasto con il grigio scuro sottostante. Forse un discreto sottofondo musicale adatto all'epoca di questi archi a sesto acuto, e di queste volte non guasterebbe, aggiungendosi al gioco di rimandi fra luogo e statue. Si conclude cosi', l'avventura di questo anno genovese dedicato alla cultura, con l'ultima mostra in programma.

La Sacra Selva, inaugurata il 16/XII, rimarra' aperta sino al 13/III/2005.

Dopo l'Eta' di Rubens e Da Tintoretto a Rubens, dedicata, quest'ultima alla collezione Durazzo ed al palazzo che e' denominato ora Palazzo Reale, allestita in quello che era il Teatro del Falcone, primo teatro pubblico in Italia, come alla quadreria di una famiglia di origine albanese, partita dal commercio ed arrivata alla porpora dogale.

MANDYLION, prima tappa sull'arte sacra, che si conclude qui.

GENOVA DEL SAPER FARE, sul lavoro della citta', ed in maniera diversa, ma non lontanissima: TRANSATLANTICI, ancora in corso al Museo del Mare sino al 9/I.

L'INVENZIONE DEI ROLLI, sui palazzi genovesi.

ARTI E ARCHITETTURA, tutt'ora in corso a Palazzo Ducale, e sino al 13/II/2005.

Ed I LIGURI, alla Commenda di S.Giovanni di Pre' sino al 23/I, interessantissimo ed esauriente mostra sull'antico popolo autoctono.

Se la mostra di cui ho appena parlato puo' essere definita veramente il finale col botto... passatemi l'espressione Luna Park, ché tanto e' la stagione, ora la sfida per la citta' e' mantenersi con il dopo 2004, all'altezza dei notevolissimi risultati raggiunti, ed era cio' che esponevano i curatori all'ultimo Salone dei Beni Culturali di Venezia lo scorso mese.

 

emilio campanella


TRISTI MOSTRE A TRIESTE

Con l'occasione di fare gli auguri agli amici triestini e di una visita di cortesia ad una scuoletta di danza per vedere uno spettacolino, essendo in citta', ho dedicato qualche ora alle mostre in corso: prima fra tutte: Trieste Anni '50 di cui avevo gia' visto manifesti un po' in tutte le citta' del nord (oltre non so) allestita in una piscina (luogo di rara tristezza, gia' in generale) comunale dismessa e scrostata, qua e la' anche un po' lugubre, con un criterio (?) talmente piatto, un allestimento (?!) cosi' sciatto, da rendere ancora piu' triste l'argomento: pannelli storico-informativi, foto ingigantite e sgranate volontariamente, grandi tavoli con disegni di edifici realizzati e no, uno piu' tragico dell'altro, qua e la', qualche oggetto, qualche vetrina, qualche manifesto, tutto poco convincente. Due schermi sospesi sopra la vasca (con l'acqua), su questa due "ponti" sul primo alcuni oggetti metallici a morire arrugginiti, sull'altro un bel plastico della citta' vista, cosi', da molto lontano (le gradinate) con un effetto di visione aerea; questa si', una buona idea, ma, naturalmente realizzata malissimo. Personale cortese, poco competente e molto malinconico. Visitabile sino al 16 gennaio.

Altra cosa TRIESTE 1945/1954, un sogno tricolore. Immagini dalle collezioni Alinari, Musei del Canalgrande, via Rossini 4, sempre sino al 16/I/2005. Si tratta, in questo caso, di un luogo neutro, ma non anonimo, che ospito' due anni or sono una bella mostra su Dudovich. Esposizione triste anche quella attuale, ma per la drammaticita' degli eventi evocati, talvolta con immagini d'immediatezza straordinaria. Ulteriore iniziativa una rassegna cinematografica a tema; su tutto e' disponibilissimo a dare informazioni un personale competente e molto cortese.

A concludere: BELARUS', frontiere fra cielo e terra, icone russe dal Museo Nazionale di Minsk (una quarantina di pezzi tra XVII e XVIII sec.) nel ridotto del Teatro Verdi sino al 9/I/2005. L'organizzazione e' del Museo Revoltella, e dire organizzazione e' decisamente esagerato, siccome i supporti informativi sono inesistenti, una povera ragazza cortese abbandonata a se stessa, dietro un tavolinetto biglietteria. Le opere, alcune di grande bellezza esposte-dislocate desolatamente nella pur bella sala. Non sono riuscito ad avere alcun tipo di materiale, un minimo esauriente, per cui il mio discorso non puo' che rimanere nel vago, e qui si ribadisce l'esigenza di avere, possibilmente, se non un catalogo a disposizione, almeno una cartella stampa per evitare di scrivere sciocchezze, e se non altro, almeno limitarle!

In conclusione, la mia impressione e' di una certa fatica a scrollarsi di dosso, un certo immobilismo, una mancanza di fiducia in quelle che sono indubbie potenziali della citta'. In effetti, solo alle Scuderie di Miramare si puo' parlare di mostre qualitativamente importanti. La situazione e' un po' quella genovese di 30 anni fa, il percorso e', comunque iniziato.

 

emilio campanella


VITA MIA di Emma Dante

E.D. torna poco dopo la presentazione della Scimia alla Biennale Teatro, e presenta, dopo ROMAEUROPA, VITA MIA (10-11/XII) ancora una volta ospite della associazione QUESTA NAVE di Marghera, che la segue da anni, ma questa volta, nel cuore di Mestre, al Centro CANDIANI, luogo che ancora non ha una sua vera identita', anche a causa di una struttura architettonicamente discutibile e dispersiva e in cui vengono buttate un po' a casa mostre (anche importanti come quella in corso dedicata a Marcel Breuer), rassegne di cinema ed, appunto, spettacoli.

Quando entriamo nella sala / agora / Aula Magna di questo strano, labirintico, faticoso, eccessivo edificio, il rito si e' gia' iniziato, ed intorno ad un letto / feretro, due "ragazzi" vestiti "da casa", una donna in lutto, ed un terzo giovane che gira instancabilmente in tondo sulla sua bici, tutti a voltarsi e guardarsi in giro con occhi torvi. Una volta seduti (operazione veloce, dato il numero chiuso di spettatori, e la relativa ampiezza del luogo) Ersilia Lombardo dara' la stura alla sua logorrea tutta recriminazioni, rimproveri, raccomandazioni, minacce, lamenti che culmina in una grande esplosione ipercinetica e blasfema da parte degli uomini, e che portera' la madre ad una sorta di crisi epilettica. Poco a poco ci rendiamo conto che stiamo assistendo ad una stravolta veglia funebre che aggiunge un capitolo all'analisi "a puntate" dell'orrenda istituzione familiare mostrata, anche qui nei suoi risvolti piu' morbosamente viscerali. In realta' non e' - volutamente _ chi sia vivo e chi morto, sino a che la madre possessiva ed incestuosa condurra' un gioco in cui il piu' piccolo verra' vestito a festa per il funerale e fermato (brevemente) nella postura del protagonista di un lamento antico, salvo, poi, agitarsi come tarantato su quello che scopriamo essere un tappeto elastico ad una piazza sul quale salteranno via via tutti vivi e morto, senza distinzione, acrobaticmente in un crescendo folle su note celeberrime di Teodorakis, come in una danza liberatoria (?), ed il "piccolo" verra' "riportato in vita", ma come un pupazzo, e lei se lo abbraccera' stretto, amante/figlio, morto/vivo sul talamo/feretro coperto da un velo dagli altri, invidiosi, che si rifugeranno anche loro, ma sotto il letto, agitandosi e giocando crudelmente e ricordando episodî dell'infanzia.

A modo suo, nella sua brevita' ed intensita' febbrile risulta non lontanissimo dal teatro di Kantor (come gia' notato), ma sotto il sole implacabile di Sicilia.

E.D. si conferma una delle personalita' piu' interessanti di regista, drammaturga, rivelatasi negli ultimi anni, anche per la coerenza nel perseguire il discorso intrapreso, anche affrontando testi originariamente non suoi come Euripide e Landolfi, recentemente. Servita da attori notevoli (i "ragazzi" sono: Enzo di Michele, Giacome Guarneri, Alessio Piazza) e notevolmente diretti, ed attenta a scegliere suggestioni musicali (anche gli straordinarî Fratelli Mancuso, sono nella colonna sonora patchwork).

 

emilio campanella


CONFIDENZE TROPPO INTIME di Patrice Leconte

Una giovane donna cammina su di un marciapiede (inizialmente ne vediamo inquadrate le scarpe e la parte inferiore del soprabito), entra in un portone dopo aver controllato i nomi sui campanelli, chiede ad una portinaia apparentemente assorbita in una soap opera, ma che al primo sguardo la indirizza al dr.Monnier: la donna quasi fugge, come scoperta, lungo il corridoio sino all'ascensore, mentre l'altra la tiene inchiodata sotto il suo sguardo implacabile, Anne (interpretata magnificamente da Sandrine Bonnaire) alza ancora due o tre volte lo sguardo, sgomenta, prima che la macchina abbia pieta' di lei, e le permetta di fuggire. Arrivata al piano, con aria ansiosa, sbircia il nome accanto ad una porta.... che si apre e dalla quale esce un uomo, ora, di fronte a lei, un signore distinto: balbetta di avere un appuntamento, lui perplesso, non sembra ricordare, ma imputa il fatto alla mancanza della segretaria gia' andata via. E cosi', la bella, elegante intrigante (pericolosa? non so, un po' menteuse, sicuro) Anne inizia la sua terapia presso lo psichiatra, solo che lo studio nel quale e' penetrata non e' del suddetto, ma di William (fragile) consulente fiscale. Si avvi'a cosi' questa strana storia di esemplari sviste, dimenticanze, ricordi improvvisi, rimozioni di vario genere.

Al terzo appuntamento una speigazione, un rifiuto, ma poi, la decisione di continuare il "trattamento" dopo che William avra' chiesto aiuto allo psichiatra della porta accanto (Michel Duchaussoy, pacatamente sulfureo e molto buñueliano), indirettamente, con il pretesto del numero telefonico di Anne (momentaneamente sparita) attraverso la sua segretaria, assolutamente in parte come figura direttiva che introduce a quella paterno-protettiva (?) del terapeuta. E qui uno dei parallelismi in un film costruito su attente geometrie, infatti, se questa giovane (ma non giovanissima) donna bionda ed elegante e' di suo di ascendenza hitchcockiana, non di meno lo e' la segretaria dello studio che ben conosciamo: Héle'ne Surge're, sorniona e puntuale, l'ex bellissima nostra vecchia conoscenza dai tempi di Vecchiali (ma anche di Salo'­Sade). Tutto e' motivato da una sceneggiatura di ottimo livello, e la progressione della vicenda e', fino ad un certo momento, ineccepibile, come lo sono le rivelazioni della vita di Anne durante le quattordici sedute, con un sempre piu' sgomento William, uomo, peraltro, molto portato all'ascolto, non solo per motivi professionali. Tre volte, lui, senza rendersene realmente conto (preziosita' di scrittura) domanda aiuto al collega professionista, l'ultima volta i consigli vengono dati in un ristorante cinese; poco prima il nuovo amante dell'ex moglie (un bellissimo orso), e questo e' un altro ramo sorprendentemente tratteggiato, della vicenda, lo accusa di essere poco zen, e poi, alle sue spalle scopriamo un ritratto di antico saggio cinese.... utleriori segnali di un film molto attento.

Ad un certo punto, pero', dopo la secondo meta', qualche cosa non funziona piu' cosi' bene, ed il meccanismo, non s'inceppa realmente, ma mostra un po' troppo i suoi ingranaggi. E se la fascinosa disturbata si fida del "nostro" dall'inizio, chiunque sia, e via via gli racconta la storia dell'incidente che ha reso impotente (?) il marito (durante un gioco erotico finito male?), successivamente ritorna alla morte del padre causata dalla propria madre; poi tenta di dargli fuoco allo studio (bel segnale) in un rutilare di fogli che volano a causa delle finestre spalancate. A questo punto William e' cotto a puntino, e a non molto gli serve andare al negozio di giocattli vecchi a comperarsi un trabiccolino meccanico di latta da aggiungere alla collezione (l'episodio e' impagabile). La situazione "precipita": ci saranno accuse, recriminazioni, fughe di lei, inseguimenti ed appostamenti di lui che la vede svenire in stazione e non la soccorre... La seguira' ancora fino a casa (?) spiando un edificio sempre solitario (ma abitera' veramente la'?). Il tema del voyeurismo e' accennato in un riferimento ­ omaggio a "La finestra sul cortile". Lei tornera' dopo aver incontrato un orso claustrofobico cliente dell'"altro" dottore, e che una successiva volta aiutera' a superare il terrore dell'ascensore: il dr.Monnier scoprira' i "due bambini" in corridoio dopo il loro "gioco proibito", vero e proprio tentativo di affrancamento dalla figura del padre con una dinamica di sguardi, da manuale. Ma quando Anne arrivera' a raccontargli orgasmi ed erotismi coniugali... ritrovati (?), lui non ce la fara' piu', e, direi che'e' piu' o meno in questo punto che si rompe un po' l'equilibrio di una vicenda tenuta sul filo del rasoio, con molti rischi e che e' stata portata avanti un po' troppo a lungo, a dispetto di una durata media (104'). Al di la' di tutto e' un film che, nella filmografia di un regista ad alti e bassi, si puo' ben definire di livello medio-alto. Ci sono particolari notevoli disseminati: l'agenda (dimenticata?) di Anne, che agli appuntamenti porta la nota: dr. onnier (solo per fuorviare il marito?) la cabina il cui telefono suona solitaria (molto affettuosamente Truffaut); i problemi di coppia anche nella soap opera della portinaia ed un riferimento al noir classico suggerito dalla televisione. Come dire: ma noi ci siamo tenuti su di un tono di maggiore leggerezza, e, da ultimo, un corrispondere delle stagioni, alle situazioni della vicenda.

Come accennavo, magnifici gli attori con in testa un Luchini che fa meraviglie di manierismo.

 

emilio campanella


ARIADNE AUF NAXOS al Teatro Comunale di Ferrara

Il Teatro Comunale di Ferrara ha inaugurato la sua stagione lirica (che comprendera' Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi, 25-27 febbraio; Peter Grimes di B.Britten, 11-13 marzo; Il flauto magico di W.A.Mozart con la direzione di Claudio Abbado, 26-28 aprile) con Ariadne auf Naxos di Richard Strauss diretta con molta attenzione e cura di Zoltan Pesko che ha dovuto, talvolta, lottare con la non duttilissima, ed un po' legnosa, oltreché dagli ottoni imbarazzanti, Orchestra Sinfonica Portoghese (e' una coproduzione con il Comunale di Modena ed il Teatro Nacional de São Carlos). L'allestimento era firmato da Toni Servillo che fatto un lavoro come sua abitudine, particolarmente accurato, in collaborazione con lo scenografo Daniele Spisa. Il PROLOGO si svolgeva in proscenio, ed anche un po' in platea, da dove arrivavano molti dei personaggi, alla spicciolata e sempre con le mezze luci di sala; pochi elementi, quali un lungo tavolo, seggiole, una cesta per i costumi, lampade sospese, alle spalle, tende verdi elegantemente drappeggiate, sipario dell'OPERA. La consueta cura nel lavoro di recitazione dei cantanti, fatta di pochi, piccoli gesti efficaci, e molto, sorvegliatissimo gusto nei movimeni d'insieme. Le voci, novevoli per quasi tutti i comprimarî, mentre Michelle Breedt, il compositore, ha avuto, alla replica cui ho assistito, non poche incertezze, in un ruolo, peraltro, che fa tremare le piu' grandi. Notevole il maestro di musica Rolf Haunstein, come l'adeguato maestro di danza, Ferdinand Seiler, anche, molto, come aspetto. L'OPERA s'inizia con l'alzarsi del sipario (le tende verdi ci cui sopra), su di una scena di isola desolata in stile Adolphe Appia, con magnifiche luci (Pasquale Mari), anche, talvolta, sporcate da ombre apparentemente involontarie, a sottolineare la finzione scenica, in maniera particolarmente sottile. I costumi "antichi" sottolineano il colto wagnerismo suggerito ed evocato dalla musica, e gia' ribadito dalla scenografia. Le tre ninfe sono le magnifiche: Marta Kosztolanyi (Najade), Jordanka Milkova (Orjade), dora Rodrigues (Echo), in eleganti movimenti, ieratici, di linee simmetriche e geometriche nello spazio. Ariadne, Elisabeth Meyer- Topsøe, bella ed elegante, ha avuto problemi, anche, di attacchi di qualche incertezza. Bacco, Jon Villars, con un magnifico costume "Peplum" anni '50, non ha dato una prova convincente, mentre Zerbinetta, Daniela Bruera (una bellona adatta al ruolo), aveva avuto problemi, anche, d'intonazione gia' nel PROLOGO, ed ha continuato con varie incertezze, e momenti non certo, sicurissimi. Benissimo, invece, le quattro maschere: Harlekin (Luis Rodrigues, anche acrobata), Scaramuccio (Carlos Guilherme), Truffaldin (Hye-Soo Soon), Brighella (Corby Welch). Per loro, alla fine, come per le tre ninfe, boati di applausi! Spettacolo, comunque, nell'insieme consigliabile.

La regia, altrettanto curata nell'OPERA, metteva in risalto il contrasto fra il mondo mitico e quello delle maschere, con costumi da Commedia dell'Arte filtrati da un gusto alla Caliot mentre l'abito di Zerbinetta, era vagamente anni '50 (sarebbe stato magnificamente ad Audrey Hepburn), con molto rosso che caratterizzava , dall'inizio, il personaggio. Ed ora, finalmente, la firma dei bei costumi: Ortensia De Francesco. La farsa ha risvolti tragici, l'opera e' un a baracconata divertentissima e coltissima, il gioco dei travestimenti, anche musicali, si sovrappone continuamente, chi vince? La musica straordinaria di R.S.

Servillo aggiunge un finale: sulle ultime note dell'OPERA, a sipario, ormai, chiuso, sul duetto delirante di Bacco ed Ariadne, che cantano ognuno, per conto proprio, il personale sogno inconciliabile l'uno con l'altro, e l'angoscia di una, differente, ma egualmente devastante, iniziazione sessuale, in una follia musicale strabiliante, Arlekin, rimasto solo, piange Zerbinetta che in soprabito e fascia per i capelli in pelle rossa, sgambetta via correndo su di un praticabile, e poi, attraverso la platea, fuori dal teatro, e dalla sua vita/sogno/finzione.

Non so chi mi abbia tenuto dal correre ad abbracciare Alekin per consolarlo!

Applausi!

 

emilio campanella


I PESCI di Alessandro Merlin

Tu passi per una calle stretta e "sconta", non molto lontana dal trionfale ingresso dell'Arsenale, e lo sguardo viene attirato dalle luci di una vetrina dove l'occhio ti cade su ceramiche graffite e dipinte in bell'ordine su di un tavolo di cristallo molto alto, poi noti il pavimento a mosaico*, abitato da pesci antichi e stilizzati, intrappolati fra tessera e tessera, ma pronti a guizzare appena l'acqua invadera' l'ambiente: puo' accadere, e' gia' accaduto! E loro, liberi di nuotare, giocheranno intorno alle gambe di Alessandro che continuera', assorto, a dipingere seduto nella piccola stanza successiva che vediamo da fuori.

Gia' ci sono alcuni temi per fare un discorso su questo artista schivo e tenace che, da circa due decenni, regala ad una citta' ormai troppo commercializzata, la sua arte perseguita con rigore.

E' una storia che parte da lontano, la sua, da un'infanzia di bimbo dotato per il disegno, e che aveva le matite come compagni di gioco preferiti. Ancora oggi nel segno nitido e preciso, e' riconoscibile quella antica passione, come il prediligere la traccia netta della china.

La scelta della ceramica, cercata sempre, con molto gusto, fra le forme sobrie ed eleganti dell'artigianato bassanese, fu vissuta un po' come sfida alla tradizione vetraria veneziana. Cio' che colpisce e' come, con estrema naturalezza, le forme astratte, o le figure, si inseriscano dentro i piatti, le tazze, le coppe, attorno ai bricchi, ai vasi, alle caraffe. Sembrano nati, gli uni per gli altri, tanto Alessandro, agevolmente, adatta i suoi temi alla forme da dipingere, come se i soggetti stessi scegliessero dove accomodarsi, accoccolarsi, scivolare agevolmente, animando la rigida materia, di linee sinuose e, molto spesso, seduttive. Infatti, essendo molti e variati i temi estetici prediletti, quelli animali ed umani hanno un ruolo preponderante, ma anche il gioco cromatico astratto ha la sua importanza.

Volendo si puo' dividere l'argomento in capitoli: i cavalli, ad esempio, primo amore dell'artista, rappresentati con forza sacra, selvaggia e primordiale. Il bestiario e, pero', piu' ampio, e se ritornano spesso i pesci totemici stilizzati e giocati sul contrasto cromatico, od anche solo di bianco e nero quasi optical, ci sono anche granchi, come, non infrequentemente, animali mitici reinventati a riempire gli sfondi. Si', perche' se, talvolta, i disegni, campeggiano solitarî al centro del bianco cristallino, quasi circondati da un'aura magica (anche quando i soggetti sono solarmente profanissimi!) molto piu' spesso, la decorazione, sfondo, scena, e' affollatissima di presenze di vario genere.

La parola chiave del lavoro di Alessandro e', come detto, tenacia, altrettanto importante e' dire come negli anni si sia affinato, partendo da artigiano/decoratore per arrivare ad una sua personalita' di artista completo, fedele al suo piccolo confortevolo antro, autodefinendosi un topo-pantofolaio, ma un topo che ha percorso molta strada a brevi passi ponderati, come di chi, in montagna, cammini seguendo un sentiero impervio, ma, con decisa sicurezza.

Inizialmente, erano fortemente riconoscibili le ispirazioni a Picasso, come a Cocteau, per le figure umane, al "Blauer Reiter" per i cavalli, soprattutto, e, variamente, per l'astratto, ad una propensione verso le avanguardie del '900, come verso il deco, e piu' tardi, certa estetica piu' oltreoceano. Ora, lo stile essendo consolidato, piu' difficilmente si puo' ritornare a riconoscere con sicurezza l'ascendente, poiché il filtro personale risulta molto piu' sicuro. Trattazione a parte merita il capitolo legato alla figura umana in generale, e, segnatamente, a quella maschile, guardata con grande attenzione ma anche con molta simpatica ironia. Infatti, se i suoi uomini dai giganteschi attributi, nudi o seminudi, anche "fetish" come si usa dire oggi, e, con molta attenzione, allo svestire ad arte il corpo, ci rimandano a proporzioni "mitiche" alla Tom of Finland e dei suoi succedanei tridimensionali: Billy ed altrettanto ci divertono per la smitizzazione, appunto, al centro della quale li pone Alessandro, che con precisione tecnica sdrammatizza la tragicita' ancestrale dell'oggetto di adorazione/affezione/ossessione.

Ma non e' solo questo, poiché il divertimento e' anche mescolare (shakerare...) le tematiche, e questo fa il "nostro" con il suo immaginario animale ed umano in un rimando continuo di sdoppiamento dell'altro da sé; cosi', bricconi, partecipano alla partita orgiastico-voyeuristica, avvicinandosi con labbra delicate pronte al bacio, ai punti "caldi" dei corpi degli umani, e questi sono i pesci; od anche a pizzicarli con grandi chele, peraltro, dall'apparenza ben poco pericolosa, e quelli sono i grossi granchi, gli uni e gli altri, strabuzzando gli occhi dall'emozione.

Questo, e molto altro, e' il lavoro di Alessandro Merlin, nel suo atelier veneziano di Castello 3876 dove, fra il resto si possono trovare dipinti anche omoni "pericolosi" che sembrano usciti da Genet, i quali, con aria sorniona e sguardo carico di promessi ci offrono ­ anche ­ un cuore rosso palpitante, ma forse altrettanto buono da mordere come un succulento frutto caldo di sole.

 

* Il mosaico e' opera dell'artista Luigi Benzoni, pittore e scultore, compagno, da molti anni, di Alessandro Merlin.

 

emilio campanella


WWW.ORSIITALIANI.COM