Le recensioni di Emilio Campanella: Novembre 2003


UNA TRENTINA DI FILM DALLA LX MOSTRA D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA

 

Eccoci qui per il nono anno consecutivo (bel numero, no?) a parlare della Mostra e di una scelta (quella delle mie visionature) di suoi film. Come al solito seguiro' il solito pedestre ordine cronologico delle proiezioni, riservandomi di fare dei collegamenti verticali, trasversali, diagonali.

Une place parmi les vivants, di Raoul Ruiz. Storia, forse, di una specie di Landru negli anni 50 del 900: pretenzioso, pretestuoso, costoso strizza l'occhio a Sartre, Camus, Robbe_Grillet etc. Buoni attori, donne bellissime, ambientazione e costumi ineccepibili. INUTILE!!! Un collega che ama questo regista mi confessava, a pochi giorni di distanza, di non ricordarne un solo fotogramma! Giustamente e' passato inosservato.

Lezate divanegi (Joy of madness), di Hana Makhmalbaf. Diciamo che sembra un po 'telefonato', si tratta di un prodotto della Factory M.: un casting per il film in fieri di Samira, pretesto per un'analisi della situazione afgana attraverso gli incontri con i possibili attori. Intravediamo anche altri membri della famiglia.

Le soleil assassine', di Abdelkrim Bahloul. Un film 'a sorpresa' piuttosto ben articolato, e con la tematica gay ben inserita nella costruzione della personalita' del protagonista: il poeta 'pied noir' Senac schiacciato fra i rigurgiti terroristici dopo lindipendenza algerina e lomofobia degli integralisti. Un film onesto, ma anche qualche cosa di piu'.

Bu San (Good bye Dragon Inn), di Ming-Liang Tsai. Si tratta di uno dei film che maggiormente ho amato, nella linea coerente di questo regista: attorno alla solitudine, ambientato in un cinema alla vigilia della definitiva chiusura, dove si proietta un vecchio film epico che non interessa quasi a nessuno, in una sala semivuota dove si intrecciano gli sguardi - ne parlo a parte.

Segreti di stato, di Paolo Benvenuti. Aveva scaldato gli animi gia' prima di essere presentato, provocando levate di scudi prima di essere visto poi tutto si e' stemperato di fronte a un film molto rigoroso (anche se meno di altri suoi, quasi che la vicinanza temporale avesse un poco ridotto la forza dellabituale denuncia di questo regista) e, come sempre, piuttosto scientifico/etimologico. Direi che lavora su diversi piani narrativo-drammaturgici tra cinema e teatro, ed interpretativi fra identificazione e recitazione quasi brechtiana, forse e' vero che talvolta sembra esserci qualche problema di equilibrio generale, ma comunque un film estremamente interessante.

Maledetta mia, di Wilma Labate. Documentario costruito su interviste a personaggi piuttosto discutibili intorno a Black-bloc, Genova 2001 etc. Non risolto.

The five obstrucrions, di Lars von Trier e Jurgen Leth. Un esercizio formale sadomasochistico, un rapporto di potere fra analista e paziente su e attorno a un vecchio cortometraggio dello stesso Leth (The perfect human, 1969) in cui von Trier propone/impone a Leth cinque remake del suo stesso film facendolo soggiacere a regole, imposizioni, ostacoli, appunto, sempre piu rigidi.

Le chien, le general et les oiseaux, di Francis Nielsen. Un bel film di animazione, sottile riflessione sulla guerra, e, specialmente, su chi viene sacrificato per vincerla. Con alcuni personaggi e passaggi gustosi come un pope saggio, un cane che muovendosi ha come colori di una stoffa fissa; uno sguardo estetico fra Bonnard e Chagall, fino al disgelo del fiume visto come cubista.

Last life in the universe, di Pen-ek Ratanaruang. Ecco un film molto interessante ed ingiustamente ignorato di cui troverete una recensione a parte, premio per il miglior attore nella sezione Controcorrente a Tadanobu Asano.

Europabol Europaba, di tanti registi inglesi da Sandor a Szabo, da Jancso' a Kovacs. Tanti, troppi episodietti quasi caricaturali.

Il miracolo, di Edoardo Winspeare. Diciamolo subito: non e' un miracolo con la sua storia (mica male, tra l'altro) mal raccontata. Con una regia poco chiara, incerto fra miracolismo e realta' scientifica, ma da rotocalchi a grande tiratura, superficiale, con personaggi convenzionali. Per fortuna il piccolo protagonista (Claudio D'Agostino), e con lui il compagno di scuola (Rosario Sambito) sono bravi, gli altri meglio dimenticarli, e non per colpa loro. L'ambientazione tarantina e' assolutamente sprecata, non c'e' nessun legame con la citta' e la sua realta', potrebbe essere stato girato ovunque.

Un filme falado, di Manoel de Oliveira. La domanda e' sempre la medesima: perche' un maestro di tale levatura viene messo in concorso, e cio' che e' peggio, abitualmente ignorato, invece di essere invitato come fiore all'occhiello della rassegna? MISTERO! Comunque il 'vecchio' Dom Manuel, passando gli anni fa film sempre piu' precisi e corrosivi. Questo, gia' dal titolo, enuncia la sua essenziale dialetticita' attraverso il viaggio per mare della portoghese Rosa Maria, docente di storia, con la figlia Maria Joana, toccando vari porti del Mediterraneo e ripercorrendone la storia e le radici. A Marsiglia sara' curiosa ed intervistera' un pescatore, a Pompei, via Napoli, ovviamente dopo il racconto della leggenda di Castel dell'Ovo, dara' un'interpretazione punitiva e bacchettona del cataclisma del 79 d.C. Ad Atene, invece, apostrofa un bellissimo pope e lo coinvolge in una conversazione intorno a filosofia antica e teologia moderna, con un atteggiamento da turista cattolica. Dopo Istambul, a Gizah optera' per una interpretazione totalmente biblica della storia egiziana, e Lu's Miguel Cintra (nel ruolo di se stesso) le mostrera' scarafaggi sacri!! In realta' scarabei del cuore simbolo di Ra-Harakhte di cui spieghera' significato e cosmogonia. Alcune belle inquadrature di busti e prospettive di specchi introducono allideale seconda parte a bordo della nave dove al tavolo del comandante sono invitate tre bellissime: Catherine Deneuve, una fascinosa (ovvio, no?) donna daffari francese rampantissima, Stefania Sandrelli, una ex indossatrice italiana fortemente antifemminista ed Irene Papas, una carismatica cantante greca. Lospite, John Malkovich, e' realmente Paride con le tre dee. Al suo tavolo ognuno parla la propria lingua e tutti si comprendono, ma quando viene invitata la portoghese, l'equilibrio si incrina ed occorrera' ricorrere all'inglese.

Dopo un episodio mondano piacevolissimo in cui Papas intona, senza accompagnamento, il bellissimo canto tradizionale Narazoula, la situazione precipitera' e la nave verra' velocemente evacuata a causa della minaccia di una bomba. Non rivelero' il finale neanche sotto tortura! Divertentissimo, intelligentissimo e cattivissimo: 96 minuti di piacere dialettico assoluto!

Rosenstrasse, di Margarethe von Trotta. Intanto tanta musica ingombrante, una struttura da vecchia drammaturgia, non mi ha coinvolto neanche per 30'. Onesto cinéma de maman. Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Katja Riemann, brava, ma niente di speciale. Dimenticatevi Il pianista, anche se vi sara' inevitabile pensarci, dato che la location principale dell'uno, come dell'altro film e' esattamente la stessa.

The Tulse Luper suitcases: Antwerp, di Peter Greenaway. Molto piu' teatrale del solito. La stessa estetica da Pillow book in poi, che non aggiunge nulla, a parte l'ammirazione per la voluta, apparente, controllata, paranoica confusione nell'inappuntabile rigore formale. C'e' una straordinaria scena d'acqua: la doccia dell'orso capostazione con sedute di foto seduttive per orsi in una estrema qualita' di definizione d'immagine, e anch'io, come lui mi ripeto rielogiando cose riviste.

The dreamers, di Bernardo Bertolucci. A caldo ho scritto: come si trascina! Prima di vederlo avevo pensato: sara' il solito triangolo' e cos' e'! Il Maggio francese sullo sfondo e le ultime immagini sono veramente molto discutibili. Mi da' l'impressione di un film veramente senile.

Zatoichi di Kitano Takeshi, che si e' portato a casa il Gran Premio della Giuria, e', a detta mia, che non amo questo regista, molto divertente. Film in costume, su di un personaggio gia' molto trattato dal cinema nipponico, sceglie la chiave ironica del grand guignol negli scontri sanguinosi in cui spadaccini maldestri vengono sbudellati e zampillano liquido rosso come otri di vino. Ci sono omaggi continui al Kurosawa dei Sette samurai e non solo, dove Kitano supereroe protagonista li riassume tutti da solo. C'e' poi la chiave comica di un comprimario bravissimo, spalla di lusso di ascendenza kyogen, ma l'omaggio al Tenno del cinema giapponese arriva anche a Do-des-ka-den con un personaggio di contorno, spiazzante e simpaticissimo. Cio' che non mi ha convinto e' la chiave vagamente 'musical' accennata per episodi staccati, e nel finale con danzine tip-tap-etno proprio, per me discutibile, e con una colonna sonora che mescola volutamente, sovrapponendole, le musiche. Ancora meno mi ha convinto l'abilita', la furbizia, il commercio, pur tuffati in una salsa indubitabilmente geniale. Anche qui l'ottimo Tadanobu.

Floating landscape, di Carol Lai Miu-Suet. Qualcuno l'ha definito un mélo di qualita'. Secondo me c'e' troppa musica, ma, a parte la lentezza, sicuramente voluta, e ben calibrata, si tratta di un doloroso percorso umano dell'elaborazione del lutto ed una graduale faticosa scelta di continuare a vivere e riaprirsi all'amore, di una donna alla ricerca dei luoghi d'infanzia del proprio amante deceduto. Comunque un film intenso e partecipato.

Sokoote beine do fekr (Silence between two thoughts), di Babak Payami. Ecco un altro regista iraniano che si rivolge alla tragedia afgana raccontando, con una scelta stilistica radicale di macchina fissa e avvenimenti fuori campo, la situazione di una donna condannata a morte (probabilmente per il solo fatto di essere donna) e del 'fucilatore' cui viene proposto di sposarla prima di giustiziarla perche' le vergini vanno in paradiso, mentre i Talebani desiderano che bruci all'inferno per l'eternita'. Penso che basti senza aggiungere ulteriori sviluppi folli della vicenda. Mi ha colpito moltissimo anche se abbiamo visto una 'copia lavoro' esportata clandestinamente dal regista dopo che il girato era stato sequestrato a seguito delle manifestazioni degli studenti.

Breaking the willow, di Yonfan. Un documentario per amanti del genere, stilisticamente non innovativo e con troppe inquadrature diagonali, ma irrinunciabile se si ama il teatro tradizionale cinese, e in particolare per chi abbia visto le strabilianti diciotto ore del Padiglione delle peonie, alcuni anni orsono al Piccolo. Il film presenta il ritratto di una attrice straordinaria e la registrazione di un atto da Il ramo spezzato e integralmente l'atto unico Il commiato. La maggior parte degli spettatori e' fuggita piu' o meno alla spicciolata, per i pochi rimasti: piacere puro!

Guerra, di Pippo Delbono. Rientra, come tutti i documentari di questa edizione, nella sezione Nuovi Territori, che si e' rivelata la piu' stimolante, ha una bella fotografia, un equilibrato montaggio di volti, luoghi: Gerusalemme, Israele, la Palestina, anziani, bambini, macerie e parole dello spettacolo omonimo, scene girate con gli attori durante una tournée. Ne parlo piu' diffusamente a parte.

Sjaj u ocina (Loving glances), di Sdrjan Karanovic. Unico film slavo in concorso, forse ingiustificatamente, e' stato molto maltrattato ma, secondo me, e' si, un piccolo film, ma tuttaltro che disprezzabile, che sceglie la via della commedia sentimentale per raccontare il dramma dei profughi, ma anche con la vena folle e surreale tipicamente slava che mescola vivi e morti, presenti ed assenti, sogno e realta', proiezioni e desideri. Un piccolo merito va agli orsi di cui e' costellato, e alla bella faccia stupita del protagonista (Senad Alihodzic).

Buongiorno notte, di Marco Bellocchio, di cui parlero' diffusamente a parte e' stato riconosciuto con qualche cosa che da' l'impressione di essere stato inventato nel pomeriggio precedente la premiazione: Premio per il contributo individuale.

21 grams, di Alejandro Gonzales Inarritu. Che dire? Che non avevamo bisogno di un altro mosaico di storie? Che Short cuts, Magnolia, Le cose che so di lei avevano gia' detto tutto e meglio? Che la violenza della storia e' soprattutto in come e' raccontata? Che il montaggio scombiccherato da' proprio l'impressione dell'espediente furbo per aumentare l'interesse intorno a una vicenda banalotta? Che e' una bella delusione? Che Sean Penn (Coppa Volpi) e' bravo, come tutti qui, ma lo e' stato maggiormente in altre occasioni?

Case de los babys, di John Sayles. Detestabilmente corale e schematico, fa pensare al vecchio Alle soglie della vita di Bergman, che era diverso come assunto, ma anche molto meglio, e infatti siamo piu' dalle parti di Emmer (dallora) e Moguy, ma loro facevano cinema dei loro tempi, qui si da' fumo negli occhi.

The agronomist, di Jonathan Demme. Ancora in Nuovi Territori, e' un emozionante, partecipato documentario intorno a un emblematico personaggio: giornalista, animatore di una radio privata in continuo contrasto con i governi dittatoriali haitiani, con qualche inquadratura 'di genere' prevedibile ed accettabile e un perfetto accordo fra immagini, suono e musica. Un finale a sorpresa perfettamente in linea con il destino dei paesi segnati dal colonialismo.

Stessa rabbia, stessa primavera, di Stefano Incerti. Su e intorno a Bellocchio, la sua storia, le B.R., le loro storie, interviste ai protagonisti di quegli anni, spezzoni di film e riprese sul set di Buongiorno, notte. Sognerei una distribuzione in abbinamento delle due opere, ma temo che le durate lo impediscano (105+55).

Pequena paloma blanca, di Christian Barbe. Macchina a mano, suono in presa diretta, bianco e nero, coppie lui-lui, lei-lei, fratelli e sorelle bah!

Schultze get the blues, di Michael Schorr. Noiosetto, con idee carine qua e la', ma molto diluito, senza contare che non di blues si tratta, ma piuttosto di country, e che se l'equivoco e' consapevole, non e' chiarito. Il protagonista (Horst Krause) e' molto simpatico, ma certe situazioni fanno pensare a Bagdad cafe', e anche a Kaurismaki, anche se l'idea del bildungroman della terza eta' non era male, e c'e' anche un medico che intona malissimo 'e lucean le stelle', ma e' un orso talmente bello da perdonargli tutto, pero' non basta, insomma, soprattutto avendo ricevuto il Premio Speciale della Giuria della sezione Controcorrente non sono mica tanto d'accordo, anzi per nulla!

Il ritorno, di Andrey Zvyagintsev. Eccolo il Leone d'Oro di quest'anno! Un film d'impianto molto tradizionale che mi ha ricordato certo cinema sovietico del disgelo. La situazione e' poco chiara e poco spiegata e ruota intorno al dramma molto edipico del ritorno di un padre violento e praticamente sconosciuto, in relazione con i due figli in situazioni estreme volute, provocate, ma anche casuali. Indubbiamente di buona qualita' e fattura, e' certo un'opera il cui premio non disturba nessuno e corrisponde molto alla sensibilita' del presidente della giuria che era Comencini. Ritrovo ora un appunto scritto durante la proiezione: 'Mantegna Mantegna con implicazioni omoerotiche da storia dell'arte freudiana'. In effetti due inquadrature in momenti diversi riprendono il tema del Cristo morto con la stessa prospettiva.

Emilio Campanella


Bu San (Goodbye Dragon Inn) di Tsai Ming-Ling

Gia' da molti anni e' scoppiato il boom del cinema estremo orientale, e da altrettanti anni non ci aspettiamo piu' il capolavoro a tutti i costi, ma e' di la' che ancora arrivano notevoli stimoli, e da nuovi autori, e da registi affermati. Infatti Bu San di Tsai Ming-Liang, se non e' un capolavoro, e non lo e', se, forse non aggiunge nulla a una filmografia di tutto rispetto come quella del regista di Vive l'amour, Il fiume, Il buco, Che ora e' laggiu', nonostante un certo manierismo riesce a catturare l'attenzione di chi ama il suo modo di fare cinema. Gli ingredienti ci sono tutti: pochissimo dialogo, pochissima azione, unita' di tempo, di luogo, di azione, un film aristotelico, dunque? Beh, si e no.

In un vecchio, gigantesco cinema alla vigilia della chiusura definitiva si proietta una 'storica' pellicola epica: Dragon Inn (King Hu, 1967), appunto, che racconta vicende legate al potere degli eunuchi dell'epoca Ming. La sala e' semivuota, poche persone assistono alla proiezione. All'inizio sembriamo anche noi entrare con il protagonista, dopo aver esitato a lungo nell'atrio guardando e ascoltando la pioggia battente. Neanche noi pagheremo il biglietto poiche' la cassiera (una zoppina carinissima, l'attrice, che, a ben guardare non e' affetta veramente da zoppia, e' anche in questo, bravissima) tanto per cambiare e' in giro, e non stara' ferma un momento, per tutta la durata degli 82'. Qui accade la prima cosa interessante, infatti rimaniamo in un corridoio della galleria e la macchina fissa spia la pellicola in sala attraverso le tende che si muovono con l'aria per cui, anche se li' per li' non ci interessa, ci ritroviamo a seguire un film attraverso l'altro, seccati che le pesanti tende scure ci impediscano la visione totale dello schermo. Quante volte ci siamo trovati in una situazione del genere! E qui arriva il punto di vista degli 'addetti ai lavori' dei cinema dove si andava 'non' per vedere il film. Altra caratteristica tipica dello stile e' la scarsita' del dialogo, non sono sicuro, ma direi che non andiamo molto oltre le dieci battute complessive, ed invece, le parole che si susseguono ininterrottamente provengono dallo schermo, d'altronde tutte le persone sono sole quindi...

Il giovane protagonista e' in cerca di avventure, ma anche a lui, come alla cassiera, sempre abilmente evitata dal proiezionista che non si fa mai trovare quando lei lo cerca, va regolarmente buca, e in sala quando si avvicina a qualche uomo che lo attira, oppure in un magazzino intasato di scatoloni dove si vaga. Questo e' proprio un vecchio edificio enorme e labirintico come tanti ne abbiamo conosciuti, e i cui chilometri abbiamo percorso alla ricerca di noi stessi. Va da se' che talvolta le situazioni sono crudelmente e sottilmente esilaranti, come quando, nelle toilettes, un uomo si aggiunge all'altro: il primo fuma, il secondo si guarda timidamente attorno, il terzo da' attente occhiate oblique, e poi, un quarto arriva a passo lento, si porta dietro gli altri e allungando lentamente e inesorabilmente un braccio al di sopra delle spalle di tutti recupera sigarette e accendino dimenticati in precedenza. Insomma non succede nulla, apparentemente, come fra gli scatoloni dove il nostro giovanotto rimane involontariamente e angosciosamente incastrato in uno stretto passaggio con un signore ben piu' in carne di lui, e viene quasi preso dal panico; mai come quando l'unica donna in sala gli si avvicinera' troppo facendolo letteralmente fuggire mugolando! Quest'ultimo e' un personaggio molto interessante, infatti, oltre a sgranocchiare rumorosamente noccioline, se ne sta stravaccata, con le gambe appoggiate allo schienale di fronte e i piedi calzati da sandali con tacchi che sono armi vere e proprie, dondolanti nel vuoto, finche', ovviamente, uno di questi cade rumorosamente e lei lo cerca a tentoni sino a sparire tra le file, per poi ritornare 'in superficie' molto piu' vicino, troppo, come abbiamo visto, al nostro giovanottino.

Insomma, due sole donne, ed entrambe con i piedi in primo piano, come dire, e come penserei io, nella tradizione, anche solo suggerita, dell'erotismo dei piedi: trionfanti e protagonisti tirannici gli uni, grandi come quelli di una sorella di Cenerentola (peraltro, se, come qualcuno ha voluto vedere, questa donna e' una prostituta, l'equazione: piede grande - scarpa grande = non verginita', ovvero fallo grande vagina navigata, la corrispondenza potrebbe calzare, appunto!), torturato, l'uno degli altri due, come se fosse stato fasciato, quello della cassiera tuttofare innamorata del 'suo' proiezionista perennemente assente.

Il film finisce, le poche persone escono, e fra queste anche due uomini, uno dei quali, si direbbe, con il nipotino. Li vediamo, a luci accese, emergere tra le file quando gia' la sala sembrava vuota: uno si era chiaramente addormentato, e l'altro e' talmente piccolo che spariva in mezzo ai sedili. Giunti nell'atrio l'adulto salutera' uno degli uomini che molto lo aveva guardato, e con molto interesse, ma si riconoscono come antico allievo ed insegnante. Nel frattempo la ragazza fa un lentissimo giro di pulizie fra le file della sala ormai deserta, illuminata da terribili neon e le cui poltrone urlano disperatamente la fine della loro esistenza. Macchina fissa per una lunghissima inquadratura anche quando la donna e' uscita di campo e si sentono piccoli rumori sempre piu' lontani nella direzione dalla quale e' uscita. Fine del film, fine del cinema, fine degli spettatori, ma e' solo il sottofinale.

Poi l'edificio viene chiuso definitivamente con saracinesche e un cartello inesorabilmente decretera' l'inappellabile chiusura. Lei esce sotto la pioggia ed aspetta sul marciapiede di fronte, il proiezionista appare, ritira il dolce che lei gli ha preparato, incatena le serrande e parte nella notte con la sua moto. Da un altro angolo di strada vediamo l'ombrellino ondeggiante, animato dal passo irregolare della ragazza che viene verso di noi, ancora macchina fissa sullo sfondo del manifesto ancora illuminato di Dragon Inn, e il suono di una bellissima canzone sentimentale degli anni Cinquanta (Cant let go), finale da mélo minimale.

Gli attori: Lee Kang-Sheng, Chen Shiang-Chyi, Mitamura Kiyonobu, Miao Tien, Shih Chun, Yang Kuei-Mei, Chen Chao-Jung, Lee Yi-Cheng.

Emilio Campanella


Last life in the universe di Pen-ek-Ratanaruang

Come scrivevo a proposito del film di Tsei Ming-Liang, due sono i film che piu' fortemente mi hanno interessato, di questa Mostra, questo e quello del giovane Ratanaruang. Non so, e' sicuramente una mia impressione, ma qualche cosa mi fa un po' accomunare queste due pellicole, peraltro molto differenti, nelle quali, infatti, in quello non accade praticamente nulla, ed in questo, forse troppo per modo di dire. Mi spiego: Last life in the universe si apre con linquadratura di un uomo in piedi su di una pila di libri, pronto ad impiccarsi, e che poi lo fa sul serio, infatti lo vediamo gia' pendere, e con i libri sparsi sul pavimento; ma subito dopo la situazione ancora ha da evolvere, e quando suonano alla porta lui sfila la testa dal cappio e va ad aprire: e' il fratello 'salvatore'. Si tratta soltanto del primo andirivieni fra passato (?) e futuro (anteriore). Pian piano scopriamo la casa maniacalmente ordinata di questo giapponese trapiantato a Bangkok (l'ottimo Tadanobu Asano, premio come miglior attore per la sezione Controcorrente) dove fa il bibliotecario in un centro culturale nipponico, e la cui collega e' sicuramente innamorata, senza speranza, di lui, infatti lo invita reiteratamente a pranzo, ma lui declina cortesemente l'invito denuncia un'allergia praticamente a tutto, altro bel segnale nevrotico. Il fratello comincera' a devastare la casa posando i piedi sui tavoli, buttando la cenere sul pavimento, spostando le cose (che, si vede, hanno un posto, e solo quello, per carita'!). Non sappiamo bene come, ma il nostro si trova, poi, sul parapetto di un ponte, pronto a saltar giu', quando una ragazza che aveva gia' visto in biblioteca lo salva, anche lei, ma viene investita involontariamente dallauto della sorella, dalla quale era scesa dopo aver litigato furiosamente per via di un uomo. La vicenda continua in ospedale dove linvestito muore. Si, e' vero, ci sono tutti gli ingredienti per un mélo dei peggiori, ma non lo e' affatto, poiche' la regia va in tuttaltra direzione. Anzi, va e torna verso e da altri sensi e scelte espressive. Siccome ci sembra di capire che il protagonista abbia avuto una storia (?) con la ragazza deceduta, si fa strada, con molti contrasti, un suo desiderio di conoscerne quella che era la vita attraverso la sorella (una pazza sciamannata che abita in una bellissima villa in rovina tenuta nello stato di disordine e sporcizia piu' indescrivibile); i due personaggi sono delineati anche attraverso dove e come abitano. Ma, badate bene, non e' tutto cos' facile, poiche' mi rendo conto di tendere a semplificare e a 'riordinare' la vicenda che e' esposta in maniera ben piu' complicata, ma, direi, con dei buoni motivi narrativi. Il fratello, per dirne una, a un certo punto, seminudo, ha una sparatoria con un collega (yakuza?), ma quando, dopo molti giorni, il padrone di casa ritornera', tutto sara' perfettamente in ordine (figurarsi!), ma, piu' avanti, la polizia che irrompera' verra' assalita da un terribile fetore, e noi pensiamo a tutte le cose andate a male in frigo, ma anche ad una fuga di gas, ma no, nonostante l'apparenza perfetta, sotto il tavolino del salotto, vengono rinvenuti due cadaveri accuratamente impacchettati, ed il film si concludera' con le immagini del nostro giapponese durante la pausa di un interrogatorio in perfetto stile estremo orientale!

C'e', comunque, anche materiale per orsi, infatti una pistola viene trovata dentro un teddy bear, in una bella confezione regalo, orsetto che riparera' la sua testa da una pioggia torrenziale. La tentazione di spararsi gli viene, ma tante', non lo fa, tanto, forse, si e' gia' impiccato allinizio, e tutto cio' che vediamo e' un suo delirio di agonizzante e alla fine nulla ci verra' spiegato, poiche' gia' poco dopo linizio ci rendiamo conto che la realta' e' assolutamente arbitraria e manipolata ai fini di un racconto stravolto e al tempo stesso coerentissimo. Infatti, liu, da bravo nevrotico compulsivo decide di pulire e riordinare la villa della ragazza per quanto lei sia in partenza, e nonostante le sue iniziali resistenze e le risse con il suo geloso amante variamente scaricato; ogni tanto 'ritorna' la defunta che lui si ritrova addormentata in grembo, mentre prima c'era l'altra. Direi una esposizione assolutamente 'orientale' in cui chi narra tace piu' che dire e lascia allo spettatore la scelta di decidere, a sua sensibilita', come interpretare la vicenda.

Forse non si e' capito, ma in mezzo a tutte queste patologie la vena ironica risalta con molta evidenza, anche se il distacco sembra denunciare una certa simpatia del regista per i suoi personaggi, e un notevole divertimento nello spruzzare ingredienti da cinema popolare con uno stile sorvegliatissimo, merito anche del coautore della sceneggiatura, con Ratanaruang, di Prabda Yoon, e della fotografia 'specialistica' di C. Doyle. Era molto divertente vedere questi tre simpaticoni (il terzo e' ovviamente Tadanobu) quindi regista, attore e direttore della fotografia, prendersi in giro e sghignazzare simpaticamente dopo lapplauditissima proiezione in Sala Grande, performance che continuava la spiritosissima intervista a Hollywood Party della sera precedente. Ricordo che Tadanobu ha ricevuto il premio come miglior attore nella sezione Controcorrente.

Emilio Campanella


Guerra di Pippo Delbono

Un collega mi ha chiesto: ce la fa anche col cinema? Dopo che avevo visto il bel documentario di Pippo Delbono (guarda caso un lavoro interessante nella sezione Nuovi Territori) e gli ho risposto: decisamente si! Anche il lavoro cinematografico di Delbono e' stimolante, e tipicamente suo, con le medesime caratteristiche 'a pezzi chiusi' del suo teatro, grazie a un montaggio accurato (Marco Spoletini) che alterna volti, luoghi, piu' spesso distrutti dalle bombe, sguardi di anziani, di bambini, frammenti e parole dello spettacolo montati dopo l'esperienza di una tournée a Gerusalemme, in Israele e in Palestina. Si ritrovano le caratteristiche del suo teatro dei diritti umani. Gli occhi sgranati di Bobo' e di Gianluca: due punti di vista diversi e speciali che con i loro percorsi differenti dai nostri indagano tragedie piu' grandi di noi tutti. Facce, macerie e scene di grande lirismo come la preghiera di alcuni uomini in mezzo ai rifiuti. Le scene contrastate montate in alternanza fra la grande forza drammatica dei paesaggi violati e le parole dei vecchi saggi. Pippo e Bobo' per mano che vagano come padre e figlio, per lande desolate e una lunga, significativa scena in cui tutta la compagnia si bagna nel lago cospargendosi e coprendosi di fango, e cosi' cambiando fisionomia, colore, forma, essenza, come se in questo modo, potesse, cambiandosi fuori, ma ovviamente, anche dentro, riuscire ad indagare meglio, piu' approfonditamente, l'immane distruzione che la circonda. E qui commuove la fragilita', la commozione di queste persone, consapevolmente impotenti, e il loro tentativo 'non riuscito' di entrare un po' piu' dentro una realta' spaventosa.

Emilio Campanella