Madama Butterfly al Palafenice di Venezia

di Emilio Campanella


Madama Butterfly con la regia di Robert Wilson al Palafenice di Venezia

 

R.W. ha rimontato lo spettacolo creato per l'opera Bastille e già riproposto al Comunale di Bologna, ed è ancora un'occasione fortunata quella di poter assistere a un lavoro di tale qualità. Premesso che questo è un tipo di teatro che bisogna amare, e molto, per riuscire a entrare nelle sue astrazioni mai agevoli, ma altrettanto mai casuali, anzi sempre motivate da una logica ferrea che sostiene tutto l'impianto, è con vera emozione che si incontrano spettacoli di tale caratura.

Spariscono le giapponeserie, ma anche i 'giapponismi', e sin dall'inizio si crea un forte contrasto tra la partitura tutta fioriture orientaleggianti e l'allestimento che risente piuttosto di una forte ispirazione Zen, della casa di Cio-Cio-San infatti nulla rimane se non il perimetro segnato sulla sabbia del giardino solcato da sentieri che i visitatori seguiranno con maniacale e rituale precisione; un unico fondale bianco verrà 'bagnato' man mano da vari colori a suggerire le atmosfere e le situazioni; un praticabile basso e lungo sul davanti della scena a destra per il primo atto, e sul fondo a sinistra per gli altri due, sarà uno dei pochi elementi scenici insieme con una piccola roccia e una seggiola dall'ardito design. I movimenti dei cantanti sono improntati a un estremo e ieratico rigore, e c'è sempre un grande equilibrio spaziale nel comporre i vari quadri dell'azione. I costumi sono evocativi, e se per gli uomini americani sono due lunghe palandrane, per i giapponesi hanno sfaccettature e tentazioni egittizzanti: ad esempio Goro e i servitori, ma anche gli 'scribi' che hanno parrucche, mentre i primi due sono a cranio rasato; il corteo nuziale è come di samurai grecizzanti, ma lo zio ubriaco e folle ha grandi hakama (pantaloni tradizionali) classici, e così, precisamente samuraico appare Yamadori (che incarna certa tradizione guerriera del potere economico locale); la terribile apparizione dello zio bonzo è invece accentuata dall'aspetto di minaccioso prelato 'baconiano'. Suzuki ha una lunga, ampia, rigida tunica che le lascia scoperte le spalle e le braccie, mentre la protagonista a questo aggiunge lunghe maniche all'avambraccio che le lasciano scoperte le spalle. Nella presente edizione le due interpreti hanno lunghi e ampi kimono trasparenti a coprire quegli abiti, si direbbe, a causa della prosperosità Chiho Oiwa che risulterebbe eccessiamente giunonica. Fin qui un elenco di dettagli che fusi insieme e 'mossi' dal regista assumono un valore che denota il voluto approfondimento e continuo riferimento al teatro giapponese tradizionale, infatti il matrimonio è un ferreo rituale e la protagonista farà una 'danza delle maniche' minimale all'atto d'indossare l'abito da sposa, semplicissimo manto evocane quelli di corte di epoca Heian (VIII/XII sec. d.C.) dopo che gli sposi saranno soli per il loro duetto d'amore una grande luce bianca li investirà esaltando il candore dei costumi, ma se si può pensare alla purezza del sentimento, non bisogna dimenticare che in Oriente è questo il colore tradizionale del lutto. Di percorsi obbligati e giardini Zen si è detto, ma bisogna aggiungere che il praticabile è un chiaro riferimento al 'ponte' del teatro Nô attraverso il quale entrano in scena i personaggi, e tutta la recitazione è riferita alla tradizione nipponica del Nô, appunto, ma anche del Kyôgen e del Kabuki. E comunque il carattere di Butterfly è decisamente improntato al rigore comportamentale buddhista (è, peraltro, figlia di un uomo a cui fu ordinato il suicidio rituale).

La notte insonne è uno dei momenti di maggior tensione emotiva, nulla infatti succede, tutto si ferma, e se dapprima Suzuki reclina il capo per la stanchezza, è il bimbo che lungamente, dopo aver giocato nervosamente con un modellino della seggiola della madre, si aggira inquieto per il palcoscenico, come presago del suo tragico destino. Bisogna vedere la precisione dei movimenti e la loro fusione con la musica, e qui il lavoro di regia è evidentissimo; la madre restava, invece, con il volto teso e lo sguardo lontano, rivolto verso il pubblico, in attesauna mano levata, immobile come una statua della dea Kwannon.

Fra gli altri momenti notevoli: l'episodio di Pinkerton con la sposa americana, una bellissima ed elegantissima Liesl Odenweller con un classico abito wilsoniano, lungo e con strascico. E nell'ultima scena con il suicidio rituale di Cio-Cio-San fra Dolore e l'americano, che con un movimento lento sino all'esasperazione della lama invisibile sulla gola (non ci sono oggetti in scena, solo evocazione di gesti) e un lentissimo abbandonarsi all'indietro, affonda nello spazio mentre le mani di padre e figlio si protendono le une verso le altre sulla stessa linea diagonale su cui la madre è morta, per poi stenderle verso di lei come a pacificarne lo spirito.

La compagnia di canto si componeva, come si è detto, di Chio Oiwa, corretta, ma di voce piccina; Pinkerton, José Ferrero, beccato alla prima e che non ha brillato per spessore né per peso vocale; Suzuki, Tea Demurishvili, intensa, in parte e ottima attrice; Sharpless, Giuseppe Garra, piuttosto convincente e Goro, Enrico Cossutta, direi il migliore vocalmente; gli altri comprimari, tutti un po' in ombra, anche a causa dell'orchestra che tendeva a coprire un po' tutti anche se la direzione di Yuri Ahronovitch, attenta come sempre, aveva, specialmente nella prima parte, momenti notevoli, salvo, poi, nella seconda (II e III atto) sembrar andare un po' in discesa.


Emilio Campanella

 

 

 

 

 



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